lunedì 14 dicembre 2009

PsychoKiller

Era la quarta volta che ci provavo.
Senza il minimo risultato.
Un’ora alla settimana, per tre anni, fa circa un migliaio di ore. Arrivavo, mi raggomitolavo sulla sedia di plasticaccia verde, mi abbracciavo le ginocchia con le braccia e ficcavo il mento tra le ginocchia.
Un fachiro.
All’inizio credevo fosse colpa mia, che non ero riuscita a stabilire un canale di comunicazione preferenziale. Allora mi preparavo prima, per tutto il giorno rimuginavo, cercavo di pensare a qualche cosa di importante che mi fosse successo in settimana, un sogno, un incontro, una sbotto d’ira.
Ma io non mi arrabbio mai, sogno poco, e non mi succede mai niente di entusiasmante.
Così me li inventavo, i sogni. Mi ero comprata l’introduzione alla psicanalisi e prendevo spunto da lì. Arricchendo con qualche aggiunta e sostituendo le tecnologie. Niente carrozze ma automobili, niente macchine per scrivere ma computer. A volte rubavo i sogni di qualcuno che mi aveva raccontato i suoi.
Non se ne accorgeva. Mai.
Spesso trovavo delle scuse. Mi si è fermata la macchina in aperta campagna, sono fuori per lavoro, ho un’emorragia cerebrale.
Ne saltavo una, ma me la faceva recuperare. Accidenti a lei.
Altre volte le dicevo Guardi io non so proprio cosa dire oggi.
Silenzio.
Avete presente il peso di dieci minuti di silenzio di fronte a un’analista che ti guarda e non dice nulla ? Un buco nero pesa di meno.
Ma non riuscivo ad andarmene.
Ci avevo provato quattro volte.
Le avevo detto che non eravamo in sintonia, che non credevo di avere fatto alcun progresso, che non mi piaceva il suo metodo, se poi c’era un metodo. Le avevo rifilato la mia teoria di essere a corto di qualche sostanza essenziale che gli esseri umani secernono negli anfratti del loro corpo e che io non ero capace di produrre. Che pertanto avrei aumentato la dose di psicofarmaci.
Niente da fare. Mi guardava, con quella faccia rotonda che cominciavo a odiare, da dietro quegli occhialini viola ematoma. E stava zitta.
Le avevo urlato che io non ero li per parlare davanti a uno specchio, che mi dicesse almeno cosa pensava di me.
Lei cosa pensa che io pensi di lei ?
Tutto quello che ero riuscita ad ottenere.
Così avevo preso una decisione.
A mali estremi, estremi rimedi.
La soluzione piu semplice sarebbe stata non farmi piu vedere. Sparire. Autoinglobarmi nel nulla, cambiare numero di cellulare e vaffanculo. Non mi avrebbe mai piu trovata.
Ma non ero capace.
Perche lei mi diceva che stavamo facendo progressi, che io avevo fatto un percorso (dio come la odio questa parola), che avevo ancora bisogno di lei.
Intanto io sprofondavo nell’apatia, nell’isolamento, nel distacco, nell’anaffettività.
A parte l’odio.
Verso di lei.
All’inizio era stato come fastidio. Poi era diventato un ringhio, un sibilo, una bavetta alla bocca.
Poi era diventata vertigine.
Così ieri ci sono andata per l’ultima volta.
Mi ha aperto, mi ha sorriso e mi ha detto Si accomodi.
Sapevo che non avrebbe detto quasi niente altro. Per un’ora.
Ma io ci avrei messo di meno.
Molto meno.
Sono rimasta in piedi, mentre lei si sedeva. Ho guardato per l’ultima volta la sedia di plasticaccia verde, la scrivania di formica, la vetrinetta chiusa col lucchetto piena di pillole per la felicità artificiale.
Mi sono avvicinata a lei, le ho sorriso anche io, e ho tirato fuori dalla borsa il martello.
Quello con la testa di ghisa. Pesantissimo.
Il cranio fa uno strano rumore quando si spacca. Prima è come uno schiocco vibrante, ma poi si affloscia.
Un rumore che vale la pena di sentire una volta, nella vita.
Io l’ho sentito quattro volte. Come le volte in cui ho tentato di liberarmi da lei.
Scivolando lentamente sulla sua sedia, gli occhiali lividi spaccati, lo sguardo vitreo e vuoto, non ha emesso nemmeno un gemito.
Sempre zitta. Ancora zitta.

Non aveva capito proprio niente, di me.

Nessun commento:

Posta un commento