domenica 22 maggio 2011

Questa donna

Quando entriamo nella stanza per chiedere se qualcuno ha voglia di sentirci leggere un racconto, così, per saltare un'ora tra le tante ore che devono passare lì dentro, questa donna è sdraiata sul suo letto, completamente vestita - non in pigiama come tutti gli altri - e guarda il soffitto attraverso un bel paio di occhiali dalla montatura alla moda, stretti e bassi, le lenti leggermente oscurate.
E' molto magra, questa donna, ha i capelli lunghi, scuri, che le nascondono il volto, porta un paio di jeans e un maglioncino di lana rosso scollato a V, che non c'entra niente con il caldo umido che si respira in corsia. Le ciabattine sono anche loro rosse però, forse un tocco di eleganza, forse una coincidenza, forse aveva quelle addosso quando l'hanno portata qui.
Questa donna, dopo averci guardato per almeno un minuto senza parlare, non dice nulla ma stacca il cellulare rosso dalla corrente, si alza e si avvia dietro di noi verso la saletta della televisione dove in genere ci mettiamo a leggere, dove quasi nessuno ci ascolta ma dove ci vengono lo stesso, i degenti, perché anche se non gliene importa niente di quello che leggiamo, è comunque un diversivo, un'ora che - forse - va via più veloce in quel rosario mal sgranato di ore vuote.
Il mio collega volontario legge un racconto di Baricco sul concerto dei tre tenori a Wembley. Niente di che, ma Baricco è un buon evocatore di immagini, quasi te li vedi davanti i tre tenori che cantano nello stadio affollato, e forse oggi stanno cantando per questa donna, solo per lei.
Infatti alla fine del racconto questa donna applaude, non un sorriso, non una parola, solo le mani che sbattono l'una contro l'altra come se fosse questa donna l'unico pubblico per cui i tenori hanno profuso le loro energie.
Poi io leggo un racconto di Benni, un racconto che avevo scelto perché mi sembrava buffo e, come dire, indifferente, non suscitatore di emozioni: la storia di un cane che si chiama Boomerang e di cui il padrone cerca di liberarsi a tutti i costi ma niente da fare, il cane ritorna sempre a casa.
Ma mentre leggo questa donna si mette a piangere. Da dietro i suoi occhialetti spuntano lacrime che lei non fa niente per nascondere, poi si porta le mani al viso - porta una fede, questa donna - e piange, silenziosamente, nascosta dalle lunghe dita affusolate.
Io finisco il racconto velocemente, perché so che va a finire bene, ma dentro sono un'eruzione di perché. Perché questa donna è qui ? Non è come gli altri degenti, che in qualche modo appena li vedi capisci che hanno la faccia da Trattamento Sanitario Obbligatorio, perché sono completamente sedati, svuotati, i movimenti rallentati, il corpo ripiegato. Perché piange sentendo la buffa storia di un cane pulcioso? Forse anche lei aveva un cane, forse l'ha perso, magari non è riuscita a superare il dolore, a elaborare il lutto, magari il lutto riguarda qualcuno che ha amato e che non c'è più. Magari è lei che non si ama abbastanza e ha cercato di farlo capire al mondo intero ed ora è salva ma no, non ne è contenta.
E poi penso che questa donna avrei potuto essere io. Anche io non sono stata capace di elaborare un lutto, di affrontare un dolore e una mancanza che mi hanno piegato per tanto tempo, che mi hanno smagrito, fatto piangere, fatto guardare il vuoto per lunghi pomeriggi e lunghe notti.
Ma io adesso sono qui che leggo un racconto di Benni, mentre questa donna è ricoverata in Psichiatria d'Urgenza a farsi leggere delle storie che la fanno piangere.
E io vorrei abbracciarla, questa donna, e dirle che le voglio bene.

lunedì 16 maggio 2011

Avrei voluto dirlo io/2

Se camminiamo di notte per strada e un uomo ci corre incontro, visibile da lontano, perché la strada è in salita e c'è la luna piena, non faremo nulla per trattenerlo, anche se è debole e lacero, anche se qualcuno lo insegue gridando, ma lo faremo continuare nella sua corsa.
E' notte e non è colpa nostra se la strada sale sotto la luna piena, inoltre può darsi che i due abbiano inscenato l'inseguimento per gioco, forse entrambi inseguono un terzo, forse il primo viene inseguito senza colpa, forse il secondo ha intenzioni omicide e noi diventeremo complici dell'assassinio, forse i due non sanno nulla uno dell'altro e ciascuno corre, per suo conto, a letto, forse sono sonnambuli, forse il primo è armato. E, da ultimo, non ci è lecito esser stanchi, non abbiamo bevuto tanto vino?
Che sollievo non vedere più neppure il secondo.

Franz Kafka, Racconti

domenica 15 maggio 2011

Non ne sono capace

La socialità, la socievolezza, la società, il socializzare.
Cose che mi diventano sempre più estranee.
Perché ci vuole esercizio, ci vuole che ti venga in mente qualcosa da dire, ci vuole un sorriso, ci vuole sentirsi a proprio agio. Ci vuole che gli sconosciuti siano una promessa e non una paura. Ci vuole che la parola sia curiosità e non pietra. Ci vuole stima e rispetto di sè e non orrore. Ci vuole stima e rispetto degli altri, e non timore.
Timore di dire una cosa sbagliata, di essere vestita in modo non acconcio, di essere troppo vecchia, di essere troppo grassa, di portare gli occhiali, di essere più antipatica, di essere più stupida.
Timore di essere a disagio, sempre.

Stare bene in mezzo alle persone è una cosa bellissima, e io una volta lo sapevo fare, non che fossi un'esperta, ma mi barcamenavo e a volte ci riuscivo anche, e quasi mai ci si accorgeva che quella tizia silenziosa che però a volte sorrideva, chiacchierava o almeno partecipava con una certa lucidità a una discussione, quella tizia lì, dicevo, era il risultato di esercizio e di volontà e di uno sforzo sovrumano per superare impaccio e timidezza.

Ma la socievolezza è come un muscolo, e se non lo alleni si indolenzisce, e poi si indebolisce, diventa più piccolo e alla fine sai che sì, ce l'hai quel muscolo lì, ma hai imparato a farne a meno e vivi lo stesso, e allora ti dimentichi di averlo. E quando, una volta ogni tanto, ti decidi ad usarlo, dopo vien fuori tutto l'acido lattico che se ne era stato lì buono per un mucchio di tempo, e a te fa male dappertutto, e ti conviene tornare a casa ché almeno lì non ti vede nessuno.

venerdì 13 maggio 2011

Gli occhi neri di Ahmed

- Sono caduto - dice Ahmed, abbassando la faccia sul quaderno per nascondere l'occhio violaceo e tumefatto, il livido giallognolo sulla guancia, i graffi.
Deve ricopiare una stupidissima poesia e impararla a memoria, e poi le parole con sci e con sce e poi le tabelline, hai un sacco di impegni e di lavoro e di responsabilità e di minacce che ti incombono sulla faccia se sei in seconda elementare e sei arrivato a metà anno dopo avere fatto la prima in Egitto. Se avevi appena iniziato a imparare l'arabo e sei stato sbattuto in un paese che non conosci, dove si parla una lingua che non avevi mai sentito e in sei mesi ti tocca fare quello che gli altri bambini hanno avuto tempo di fare da quando sono nati.
E se ti distrai un momento cadi e ti si gonfia l'occhio uguale uguale come se tuo papà ti avesse picchiato con la fibbia della cintura.

Questa cosa della cintura me l'ha detta Aswan, la stronzetta petulante che finisce i compiti prima di tutti ed è la regina dei pettegolezzi. Aswan è una piccola leccaculo e sicuramente avrà una vita facile. Di certo più facile di quella di Ahmed, che la prima cosa che fa quando arriva è guardarti con quegli occhioni neri e ripetere Io non sono capace, non sono capace, e invece poi con fatica, con lentezza, ma in sei mesi ha imparato a leggere quasi bene, sta imparando a scrivere, almeno in stampatello, e riesce pure a ricopiare la poesia.

Non credete mai ai bambini con un occhio gonfio che vi dicono che sono caduti.

Ah, Ahmed non è assolutamente un nome di fantasia, tanto al doposcuola ci sono come minimo quindici Ahmed con gli occhi neri e dubito che qualcuno riuscirà a riconoscerlo. A parte i lividi, ovviamente.

mercoledì 11 maggio 2011

di favole e filastrocche

Da anni non credo più in dio.
Ma qualche volta in chiesa ci vado, perché alla mia età ormai succede che debba andare a qualche funerale. I nostri genitori sono vecchi, iniziamo a invecchiare anche noi, e insomma, la vita, eccetera.
Così, quando ci devo andare ci vado. Mi alzo e mi siedo a comando, incrocio le braccia, scambio il segno della pace perché è un gesto che può fare anche un'atea, e me ne sto a bocca chiusa per un'ora.
Ma dentro. Oh, dentro è tutto un declamare.
So ancora a memoria tutta la liturgia, ricordo di quando ero bambina e a messa ci andavo tutte le domeniche, con mia nonna o, più raramente, con mia madre. E non posso fare a meno di recitarmela, dentro, ma nell'antica versione anni '70, quando c'era "il nostro papa Paolo, il nostro vescovo Michele e tutto l'ordine sacerdotale". E' una filastrocca che per me non ha più senso, l'ha perso molto tempo fa, ma mi è rimasta appiccicata come il vinavil sulle mani e ha fatto quella pellicina sottile che diventa tutt'uno con il palmo e che fa piacere togliere, per poi ricominciare a spalmarla.
Perché io ho una memoria sarcastica. Ricordo la canzoncina della pubblicità del doppio brodo star, ricordo quarantaquattrogatti e ricordo la messa.
E non mi dice niente, è vuota di ogni significato, sterile, noiosa.
Ma non c'è niente da fare, anche se cerco di distrarmi poi ritorno sempre lì, alla chiesa diffusa su tutta la terra, al padrenostrocheseineicieli, al concristopercristo.
Come un'inquietante ninnananna, come un babbo natale che hai ormai smesso di aspettare, come una vecchia filastrocca.
Che però, lì in chiesa, ti viene da canticchiare.

martedì 10 maggio 2011

perché ti voglio bene

No, non sono d'accordo che tu vada al funerale dell'uomo che amavi e che ti ha lasciato mesi fa, perché a quel funerale ci sarà anche suo figlio e la moglie, da cui non si è separato, e amici e colleghi che non conosci e con i quali non puoi condividere nemmeno un abbraccio o una parola o un ricordo, perché nessuno ti conosceva.
Ma ti accompagno, perché ti voglio bene.

No, non mi va di guidare la tua macchina fin là perché tu stai troppo male per guidare, perché son due anni che non guido e comunque non ho mai guidato una macchina più grande di una 500, e la tua mi fa un po' paura e fuori Torino mi perdo sempre.
Ma accendo il motore e parto, perché ti voglio bene.

E no, Frank Sinatra non fa proprio parte dei miei cantanti preferiti, e di My Way preferisco indubbiamente la versione del vecchio Sid Vicious, e non ho voglia di cantarla in macchina per te che sei stonata e non hai il senso del ritmo.
Ma te la canto tutta, a squarciagola, I did it myyyyyyyyy waaaaaaayyyyyy.
Perché ti voglio bene.

E no, non mi piace per niente che tu dopo la funzione ti scoli un thermos di Negroni in macchina, con un caldo ormai estivo, piangendo tutte le lacrime che un essere umano può piangere senza scomparire in una pozza, perché era il cocktail che bevevate sempre insieme, perché so che non mangi da due giorni e che non ti farà bene.
Ma ti lascio bere, perché ti voglio bene.

Conosco bene il dolore della morte, e so che non lascia scampo, né parole. E allora fai quello che, vuoi mia vecchia amica, chiedimi anche quello che non voglio fare, io lo farò per te anche se non mi piace, per farti posare un po' di quel dolore sulle mie spalle robuste.
Perché ti voglio bene.