venerdì 31 agosto 2012

Avinash e il culture clash





E’ bello la sera, al tramonto,  quando il caldo è meno feroce e i venditori sono stanchi di assilarti con le loro assurde proposte commerciali,   sedersi  sulle rive del Gange  a godersi il fresco. L’acqua è marrone, fetida e schiumosa, nasconde segreti e corpi,  o pezzi di corpi. Ma l’impressione che se ne deriva è, stranamente,  di una quiete serena,  come se dopo tutto il gran daffare del giorno, inghiottire liquame, portare verso sud resti di cadaveri, soffocare per la mancanza di ossigeno,  questo strano,  misterioso   fiume si concedesse finalmente un po’ di riposo.  La luce calante nasconde gli orrori, la sporcizia, il vento porta via gli insopportabili odori di immondizia e putrefazione.  Scende sull’acqua una calma irreale e sconcertante, che potresti scambiare per pace dell’anima.



Son qui seduta sui gradini dell’Assi Ghat.  Vicino a me due capre, sdraiate pigramente una sull’altra, masticano rifiuti. Sono qui con Avinash, che mi parla di filosofia e arte indiana, di Ramakhrishna  e dei Moghul. Avinash ha due lauree e sta facendo un master in Storia dell’arte alla Benares Hindu University. E’ appassionato di arte indiana ma conosce benissimo anche l’arte occidentale, e i nomi dei nostri grandi pittori – Michelangelo,  Raffaello – pronunciati con l’accento Hindi, mi suonano allo stesso tempo familiari ed estranei.
Avinash è un intellettuale. Avinash è un guidatore di tuk-tuk, che passa la giornata a scarrozzare passeggeri indiani e stranieri (meglio stranieri, dice ridendo, che ti pagano sempre un pochino di più) per le polverose viuzze di Varanasi per qualche rupia. Poi la sera se ne va sul Gange a chiacchierare con i colleghi o con qualche straniero che non sia sospettoso e diffidente o che abbia ancora voglia di parlare, dopo una giornata passata in questa città che, credeteci, è un’esperienza devastante.

Gli chiedo perché uno con due lauree e un quasi master sceglie di fare il guidatore di tuk-tuk per una miseria. Ma questa semplice domanda nasconde uno scontro di cultura che sempre viene fuori  in queste occasioni: perché sprecare tutto questo sapere, perché non metterlo a profitto, perché non trasformare in benessere, in miglioramento materiale, una risorsa che è già lì, disponibile.
Perché mi piace  la vita tranquilla, senza stress, dice Avinash.  Qui non ho padroni, lavoro quando voglio, e posso passare il resto del mio tempo a guardare il fiume che mi scorre qui davanti. E qui dentro,  mi dice, toccandosi il petto.

E nemmeno più mi ricordo perché gli ho fatto questa stupida domanda. 

giovedì 30 agosto 2012

Una cosa divertente che voglio fare ancora un sacco di volte.






Qui è dove ho passato le mie vacanze quest'anno. 
Qui è dove voglio tornare presto. 

Chi fosse interessato a fare questa esperienza può mettersi in contatto con me. 

Namastè




Neha






Neha aveva 12 anni quando si è sposata. Neha era sposata da cinque giorni quando è rimasta vedova.

Neha abitava in un villaggio isolato e poverissimo, non era  mai andata a scuola, aveva  guardato le bestie e lavorato nei campi fino al giorno del suo matrimonio con un ragazzino di un altro villaggio, lontano dal suo (venti chilometri da fare a piedi nel fango sono un lungo viaggio), un ragazzino mai visto prima e – guarda il destino, a volte – quasi mai visto nemmeno dopo, visto che cinque giorni dopo il matrimonio è stato morso da un serpente ed è schiattato lì, davanti alla sposina che ancora non aveva capito che cosa era cambiato per lei:  lavorava nei campi prima, lavorava nei campi dopo, solo erano campi diversi perché la sposa va ad abitare con la famiglia dello sposo, abbandonando tutti i suoi affetti.
Neha è quindi una vedova a 12 anni e  la famiglia dello sposo la rimanda a casa; non vogliono nemmeno più vederla, è una strega che fa morire la gente, è già grazie che non l’abbiano picchiata a morte. Non che la sua famiglia d’origine  sia entusiasta di riprenderla: un’altra pancia da riempire, e pochissime possibilità di rimpiazzarla sul mercato: è una vedova, è bruciata, nessuno la vorrà più. Neha  adesso deve rompere i suoi bracciali rossi, da sposa, davanti a tutto il villaggio; deve vestire di bianco e mangiare poco per essere il meno seducente e desiderabile possibile, e vivere di carità.
Così se la riprendono, ma probabilmente Neha  inizia a pensare che  la vecchia usanza del sati, ormai proibita per legge,  potrebbe essere una piacevole soluzione ai suoi problemi: che cosa sarà mai buttarsi nel fuoco e immolarsi insieme al marito morto in confronto alla vita che sta facendo ora ? Costretta a stare sempre chiusa in casa, malnutrita, schiava di tutti, ridotta a un animale sporco e maltrattato. D’altronde se lo merita, dopo cinque giorni ha fatto morire il marito, poco importa se il ragazzino era nella foresta con i suoi amici e lei era a casa a servire la suocera, è comunque colpa sua.
Quando la madre di Neha è arrivata a scuola da Renu, a piedi, i soliti venti  chilometri nel fango, era molto agitata, e chiedeva aiuto immediato e urgente: le avevano detto che ma’am aiuta la gente povera e lei aveva decisamente bisogno di aiuto, sua figlia stava molto male e aveva paura che sarebbe morta molto presto.  Renu è andata subito al villaggio e davanti alla casa ha trovato una branda coperta da un lenzuolo sotto il quale si intravedeva un corpo umano, magrissimo, quasi non lasciava segno, ma che si teneva il lenzuolo tra le mani e non voleva che la scoprissero.  Quando Renu finalmente è riuscita, con delicatezza, a tirarne giù un lembo, si è subito ritirata inorridita: lì sotto c’era un corpo disidratato, puzzolente, sporco di vomito e di escrementi, gli occhi fissi, che aspettava solo di morire.

Oggi Neha ha 18 anni e si è risposata. E’ stata molto tempo in ospedale, poi è andata a lavorare con Renu a Tender Heart:   lei ha imparato a cucire, la sua famiglia si è convinta che non  è stata poi solo colpa sua se il primo marito è morto.
Non credo che Neha farà sposare sua figlia a dodici anni, comunque.

mercoledì 29 agosto 2012

Tike Tike




Non so se si scriva così. E’ un termine hindi che significa “ok, tutto bene, tutto a posto, d’accordo”, ed è la parola con cui sempre si chiude una telefonata o  si conclude un accordo. E’ in genere accompagnato da un veloce gesto della mano, una repentina rotazione del polso  destro verso l’esterno, le dita leggermente aperte, un gesto che è contagioso : mi sono accorta che adesso tendo a farlo anche io e mi piace molto di più delle americanissime “virgolette”  fatte con le dita.
E’ umano e istintivo  tendere all’emulazione: di gesti, di modi di dire che non sono nostri ma che acquisiamo lentamente attraverso una sorta di scansione mentale, che ingenerano abitudine e si radicano inevitabilmente nell’immaginario.  La convivenza, anche temporanea, con persone provenienti da tutto il mondo ti espone a un biliardino mentale, e tu viaggi e rimbalzi e urti e precipiti come la pallina rossa mentre intorno a te tutto tintinna, squilla e ti rimanda altrove. Così adotti parole e gesti in altre lingue,  mischi l’italiano con l’inglese e con l’Hindi – perlomeno quelle tre parole che hai imparato  - e trovi analogie (in Hindi nama vuol dire nome, nava in Sanscrito vuol dire nove,  agni significa fuoco,  non è meraviglioso?) e resti di una lingua remota che pure dovevamo avere in comune, quando alcuni di noi lanciavano il cavallo al galoppo nelle pianure e pretendevano che tutto il territorio da lui attraversato diventasse loro regno.
Sono qui con una decina di altre volontarie e l’Inglese è ovviamente la lingua adottata da tutte; ci sono poi altre parole che ti conviene imparare in fretta – Nehi, No, la parola più usata dagli occidentali – Jell’ ja, scritto più o meno come si pronuncia, Vai Via, Stammi Lontano,  anche questa inflazionata – Shukria, grazie,  Thoda Thoda, poco poco,  Sundari, bellissimo. 
Molti qui parlano inglese, ma nei villaggi, negli slums o nelle tende per strada si comunica con gesti, con sorrisi, o con azioni impregnate di significato: se ti piazzano in braccio un bambino, si fidano di te.  Se si portano la mano con le dita strette alla bocca, vogliono mangiare.  Non è poi così difficile.
Poi ci sono i gesti ipnotici e ripetitivi di chi è dedito alla liturgia e al rituale, sacro o profano che sia. La mano destra, pollice e indice uniti a cerchio che stringono un bastoncino d’incenso, che rotea elegante il polso seguendo il ritmo ossessivo  del tamburo nella cerimonia del Ganga Aarti a Varanasi.  La testa di un fedele che tocca terra più volte nel tempio Shivaita alla ricerca di favori e benedizione. Il movimento sensuale  e convulso di una frenetica danza in un film di Bollywood.  Le dita lunghe e nervose dei massaggiatori ayurvedici che ti cospargono di olio essenziale e te lo fanno colare tra i capelli.
L’india è il paese più altamente codificato in cui io sia mai stata.
Ma effettivamente non sono mai stata in Giappone.

lunedì 27 agosto 2012

Scherzi del Karma





A scuola, oltre alle  12 classi regolari della scuola dell’obbligo,  ci sono due classi per “special needs children”: ci sono bambini down, tetraplegici, autistici, Asperger, ritardati.  Sono ragazzi altamente discriminati nei loro villaggi e all’interno delle famiglie stesse. Stranamente sono tutti maschi:  ho il sospetto che per le femmine, una volta scoperta una patologia psichica,  le famiglie ricorrano a metodi più sbrigativi e decisamente più illegali per risolvere il problema in maniera definitiva.  D’altra parte qui in India da due anni è stata dichiarata illegale l’ecografia sul feto, visti i moltissimi aborti che venivano praticati dopo avere saputo che si portava in grembo una femmina.  Non si va tanto per il sottile qui, e all’etica non ci si pensa granché quando c’è il problema di pance da riempire.

Alcuni di questi ragazzi  non hanno consapevolezza della loro patologia,  altri invece soffrono molto nel constatare che vengono trattati in modo diverso dai loro fratelli o sorelle, quelli “normali”.
C’è un ragazzo con le gambe inutilizzabili, ridotte a due salsicce molli e sfibrate,  che si trascina sul pavimento aiutandosi con le braccia. Però fa dei braccialetti e collane bellissimi, ha molta fantasia e gli piace inventare nuovi modelli.

C’è un bambino down a cui abbiamo fatto un regalo preziosissimo: gli abbiamo portato le bolle di sapone, e lui corre felice per la scuola inseguendo le bolle, rompendole mentre cerca di conservarle sulla mano.  La sua risata è contagiosa, il suo impegno instancabile nel rincorrere quelle bolle trasparenti, si affeziona a tutti e pretende coccole da chiunque.
Poi c’è Manu,  che ha 16 anni ma è un gigante disarmonico e goffo:  quando arriva da noi, nella stanza in cui lavoriamo, bisogna far sparire cellulari, macchine fotografiche, dispositivi di qualunque genere, perché te li sfila via con una velocità da predatore e poi li analizza con la cura di un anatomopatologo. Manu è autistico e sembra riuscire a biascicare solo versi incomprensibili. Un paio di anni fa, mi ha raccontato Renu, ha trovato alcuni vecchi calendari e si è messo a sfogliarli ossessivamente, per un paio di giorni non ha fatto altro. Adesso se gli dici una data, dal 1947 (l’anno dell’Indipendenza) in poi, lui ti sa dire immediatamente il giorno corrispondente. Non sa fare altro, e questo sapere non gli servirà a molto nella vita, ma è strabiliante vederlo all’opera.

Certo che se nasci in India, povero e anche handicappato, il tuo karma ti ha giocato uno scherzo veramente di merda. 

domenica 26 agosto 2012

Hindu goddesses


Da giorni sto cercando, tra le varie divinità del pantheon Indu e tra le pieghe nascoste del suo parente più autorevole, il Veda, una divinità che assomigli a Renu, la donna che ha sognato, progettato e infine realizzato la ONG per la quale ho lavorato questo mese di agosto.  Perché mi sarebbe piaciuto raccontare di lei paragonandola  a una di queste donne di potere, invincibili, forti, e perché lei è veramente una forza della natura.



Ma in realtà niente è più lontano da Renu di una qualsivoglia divinità religiosa. Renu è una donna pragmatica, terrena: fisicamente imponente, con dei bellissimi capelli neri che in genere tiene raccolti ma  quando  li scioglie le circondano il viso sorridente e sereno.  Porta dei salwaar kameez coloratissimi e molto eleganti, e va matta per la bigiotteria. La sua allegria è contagiosa, e uso questa frase scontata perché è la prima volta che capisco davvero cosa significhi: in genere l’allegria degli altri non mi ha mai contagiato, al contrario mi è capitato spesso nella vita di influenzare negativamente chi mi stava intorno con il mio cattivo umore.
Renu invece ride, ride spesso, ed è impossibile non lasciarsi andare al riso con lei perché ti coinvolge, mica ti lascia stare: ti racconta una storia divertente, fa l’imitazione di qualcuno (è bravissima a imitare i ragazzi indiani rimbecilliti dalle "straniere"), ti offre qualche golosità indiana. Non le piace vedere la gente stare ferma, ti trova sempre qualcosa da fare, e se ti fidi sa regalarti piccole esperienze deliziose. Ha centinaia di storie, alcune drammatiche altre divertenti : d’altra parte ha fatto quasi tutto da sola, ha iniziato con un terreno che era una discarica, in mezzo alla campagna, ma era l’unico che poteva permettersi; l’ha bonificato e reso agibile e ha aperto la scuola, che all’inizio era un’aula sola dove si radunavano pochi bambini di età più diverse. Adesso la scuola comprende 12 classi tra elementari e medie, due di asilo e due per bambini con “special needs”; più una scuola per donne dei villaggi che vogliano imparare a cucire, a infilare collane e braccialetti, a fare l’hennè, tutte attività che possono imparare a scuola e portarsi a casa.
Quando ha aperto la scuola, 12 anni fa, una delle cose più difficili è stato assumere le insegnanti: nessuna maestra  voleva andare a lavorare in quel posto in mezzo ai campi, isolato, senza niente intorno.  Adesso ci sono circa venti maestre che lavorano più una logopedista,  un designer che progetta la produzione artigianale e tutta una serie di altri collaboratori. Il progetto funziona a meraviglia, e Renu ha grandi idee per il futuro. E’ una che non si arrende mai, che ti stimola a trovare soluzioni alternative ai problemi.  Guarisce tutti i mali – in particolare diarrea e vomito, l’incubo di ogni occidentale - con la Limka (una specie di Sprite indiana), limone e  banane. E nessun progetto le sembra mai impossibile da realizzare, nessun sogno troppo grande. 
Ci tornerò da Renu, di sicuro.  Perché lei ha bisogno di volontari, certo, ma soprattutto perché io credo di avere parecchio  bisogno di gente come lei.

sabato 25 agosto 2012

Esperimento con l'India





E’ tutta una faccenda di fiori di loto, di occhi aperti senza pupille, di curry e monsoni; e di vacche sacre, no?
Giorgio Manganelli, Esperimento con l’India 


Stupro indiano


Per quanti aerei tu prenda, per quante volte tu ci sia stata, non sei tu che vai in India, mai.
No, è l’India che viene da te, dentro di te, ed è sempre – all’inizio – uno stupro.  E tu hai due possibilità: o ti ribelli, ti irrigidisci, chiami in causa tutta la tua Europeità e occidentalità, e allora lo stupro fa davvero male, e ti lacera tessuti e nervi; oppure acconsenti alla violenza, ti abbandoni ad essa, e solo in questo caso, uniformandoti con il tuo aggressore e prendendo la forma che ti vuole dare, puoi ricavare da questa violenza un piacere intenso, estremo e mai provato prima.


Il mercato delle spezie a Delhi,  vicino a Chadni Chowk, è bello, affascinante e repellente come lo ricordavo: carri carichi all’inverosimile di sacchi di juta strabordanti pepe, peperoncino, curcuma e coriandolo, profumi deliziosi mescolati con nauseanti puzze di marcio e di putrefazione. Gente che dorme sui gradini del mercato, invasa da mosche. Uomini magri ed emaciati che giocano a carte all’ombra di vecchie colonne. Buie, strette, umide e scivolose  scale che si prestano a foto che sembrano studiate a tavolino, mentre invece sono frutto di scatti frettolosi, seminascosti,  sudati. Pezzi di incenso (non bastoncini, quelli sono già troppo sofisticati) che bruciano in antri oscuri, depositi di spezie e – temo – topi di varie dimensioni.

Dal tetto del mercato, dove ci ha portato il nostro rickshaw driver, si gode una vista sulla vecchia Delhi che non suscita particolare meraviglia, o forse sono solo troppo stanca e sudata per poterla apprezzare. E’ il mio primo giorno – anche se la mia quarta volta -  in India, quest’anno,  e se anche il mio cervello è ormai abituato alla violenza indiana, il corpo ha tempi diversi e diversi percorsi di acclimatazione. Sono stremata e appiccicosa, due modalità che per quasi un mese non mi abbandoneranno mai. E anche stupita e felice di essere qui, ancora una volta.  So già che nei prossimi giorni la stanchezza, il caldo, la folla, le difficoltà mi faranno  odiare  questo paese con una forza che mi renderà cinica, a volte, di fronte a terribili disgrazie, a corpi martoriati, a bambini sudici e affamati. Ma nessun odio, per quanto vivido, potrà mai nemmeno per un momento eguagliare la forza dell’inspiegabile amore che nutro per questo paese.