sabato 30 aprile 2011

Pilipino rock

Sull'autobus che mi sta portando a Porta Palazzo, sedute vicino a me ci sono due signore piccole piccole, con la pelle scuretta, che parlano una lingua strana che all'inizio non riconosco ma poi penso che potrebbe essere Tagalog, sicuramente è una lingua asiatica, e poi loro son piccine e scurette, gli occhi non a mandorla, insomma sì, decido che sono filippine. E mi metto ad ascoltarle anche se non capisco niente, ma ogni tanto, come quasi tutta la gente che viene in Italia a lavorare, ficcano nel discorso qualche parola italiana e io cerco di capire di cosa stanno parlando, perché io sull'autobus non mi faccio mai i fatti miei.
Infatti dopo un po' viene fuori "cinquicenti euro", detto con uno sbuffo e una certa insoddisfazione, e io mi immagino (sull'autobus la mia immaginazione viaggia velocissima) che siano due colf e che a una abbiano proposto uno stipendio di cinquecento euro e lei non sia molto contenta.
E poi l'altra dice : ma noi qui mangia bene, vittelo, arosto, mmmmh - e lo dice con un'aria sognante, schioccando la lingua, con gli occhietti vivaci, e io penso a questa gente che viene qua a faticare in case che loro manco si sognano, a cinquecento euro al mese, ma finalmente possono mangiare vittelo, e mi intenerisco e io a queste due signore bassette qua voglio un po' bene.

giovedì 28 aprile 2011

Repartino

Fabio mi afferra un braccio, interrompendo la mia lettura del racconto, per dirmi che ha bisogno di un prete perché deve dire tutta la verità. Venti minuti fa si era presentato come James Douglas Morrison, ma adesso non se lo ricorda nemmeno più. Son tanti, venti minuti, sono una vita, qui dentro.

Lisa è sdraiata per terra nel corridoio, e dorme. Intorno a lei, seduti per terra, due uomini e due donne; una ripete cantilenando Sveglia, Lisa svegliati, sono cinquanta ore che dormi. Beata te. Svegliati, svegliati.
Cinquanta ore. Non dieci, non un giorno e una notte. No. Cinquanta.

Il racconto che stavo leggendo prima, quando Fabio-Jim Morrison mi ha interotto, è un racconto di Stephen King. L'autore lo ha scelto Antonio, ché prima avevamo provato con Sepùlveda ma lui aveva detto che era palloso, e che o leggevamo Stephen King o lui se ne sarebbe andato.
Andato dove, mi chiedo.
Antonio dice che la prossima volta dobbiamo portare degli autori più fighi, e allora gli chiedo di dirmene qualcuno che gli piace, e lui dice che vorrebbe che gli leggessi John Mayorn Stanton, ma subito dopo lo chiama Josh Antrhop Milling, e se glielo facessi ripetere ancora sarebbe un nome ancora diverso. Oppure gli piacerebbe quel libro di cui non ricorda l'autore ma che si chiama Il giorno dell'intimo, è di un autore italiano, uno bravo come Stephen King.
Poi si mette a cantare in inglese, una canzone che fa you/ don't/ to be / why/ and.
Ne ha di immaginazione, Antonio.

L'infermiere specializzato è uscito dalla saletta comune ma ne avverto la presenza subito dietro la porta. E' un ragazzone robusto, perché con questi, anche se son sedati, non si sa mai.

A parte Fabio, che è chiaramente un tossico che non è mai più tornato dall'ultimo viaggio, non so cos'abbiano gli altri. Alcuni sono giovani, altri non si capisce, potrebbero avere trentanni ma anche sessanta. Hanno denti rovinati, tatuaggi, maglie macchiate, cappelli da baseball, capelli metà neri e metà biondo platino. Hanno parole bofonchiate, sguardi vuoti, calzini bucati. Fumano tutti. Tranquillamente, in corsia.
Sono i degenti del pronto soccorso di psichiatria. Molti di loro verranno dimessi tra qualche giorno, per poi ritornare alla prossima crisi. Altri invece non se ne andranno. Uno mi dice che è arrivato tardi alla lettura perché era a casa di un suo amico che non sta tanto bene, ma l'infermiere mi dice che è qui da più di un mese.

E io, con i miei libri di racconti e il mio badge da volontaria, sento intorno a me il respiro del dolore.

lunedì 25 aprile 2011

il 25 aprile della mia vicina

Si chiama Ocleria, la mia vicina, ma quasi nessuno la chiama così. Nessuno capisce bene il nome, e allora diventa sempre Clelia. Col suo vero nome la chiamo io e la chiamava Vincenzino, suo marito, che è morto a novembre per un attacco di cuore e l'ha lasciata sola e malaticcia.

Ci sarebbero tante cose da dire su Ocleria, ma adesso non le voglio dire. Adesso mi piacerebbe che chi passa di qua guardasse questo video, perché soprattutto oggi è importante, e perché secondo me aiuta a rendere il passato un po' più vicino, e a tenersi stretti i ricordi.
il 25 aprile di Ocleria

venerdì 22 aprile 2011

hand in glove


Sull'onda malinconica del post precedente, una madeleine ancora dedicata a te.
La mano guantata di blu è la mia, il guanto color cuoio, vecchio e un po' rovinato, è una delle poche cose che ci hanno restituito, insieme alla fede, a un mazzo di chiavi e a un vecchio portafogli.
Vedi come la mia mano sembra piccola in confronto alla tua?
Com'era stringermi la mano allora, quando ero tanto più piccola di adesso? Avevi paura di stringermela troppo? Spariva dentro le tue, così grandi?
Io non me le ricordo, le tue mani.
Ma ho sempre avuto un debole per le mani degli uomini: mi piacciono lunghe, con le dita magre, glabre e chiare, con le vene un po' sporgenti.

Le tue le immagino esattamente così.

mercoledì 20 aprile 2011

Aprile è il più crudele dei mesi

E' successo quarantacinque

anni fa.
Eppure tutti gli anni, questa data me la ricordo ancora molto bene.
Ero piccola. Tanto piccola.
Così piccola che ho pochi ricordi di quel tempo.
Ricordo un uomo altissimo e magro appoggiato al muro della cucina, e io che gli corro incontro appena sveglia e gli abbraccio le gambe.
Ricordo cosa si vedeva dall'alto quando mi prendeva in braccio e mi faceva saltare, e il pavimento mi pareva lontanissimo.
Ricordo un Pinocchio di legno snodabile, regalo per una bimba ammalata di scarlattina. Era bellisimo e profumava di legno.
Ricordo il gioco di Braccio di Ferro : prima di mangiare la verdura vinceva lui, dopo che a fatica avevo ingollato una forchettata di spinaci vincevo sempre io. E ci credevo.
Ricordo che gli stringevo le labbra e lo obbligavo a parlare così, e lui faceva un sacco di smorfie che mi facevano ridere.
E poi ricordo di essermi svegliata, un 28 di aprile, perche mia madre gridava in cucina.
E' morto, è morto, non è possibile.
Ricordo le mie ginocchia magre da cinquenne giù dal letto, mentre mi infilavo le ciabattine rosse che mi aveva regalato lui.
Un regalo utile, mi aveva detto. E io non sapevo che cosa volesse dire utile. Me l'aveva spiegato lui.
Le ciabattine rosse sono l'ultimo ricordo di quel giorno, insieme alle grida di mia madre. Non ricordo altro.
So solo che da quelle ciabattine rosse in poi, la mia vita è cambiata.
Un Edipo tranciato a metà, direbbe la mia psicanalista.
Ed è un dolore che mi porterò sempre addosso.
Aveva trent'anni, quel 28 di aprile.
Sono molto più vecchia di lui.