venerdì 29 luglio 2011

Della stanchezza

Tu non lo sai cosa vuol dire stancarsi. Credi di essere stanca dopo una giornata di merda, dopo aver fatto le grandi pulizie, dopo aver camminato per ore in una città da visitare con la cartina in mano. Ma non è mica quella la stanchezza.

La stanchezza è fare tre passi per andare in bagno. Dover chiedere aiuto a qualcuno per poter entrare nella doccia. Spingere con i guanti da ciclista le ruote enormi della sedia a rotelle. Cercare un frammento del tuo corpo che non sia ancora stato torturato dall'ago della siringa, il tuo odiato e salvifico appuntamento quotidiano con le medicine che ti conservano in vita. Aspettare che qualcuno ti tagli la pizza mentre i tuoi amici si avventano con voracia e allegria sui piatti fumanti.

Io non lo sapevo, davvero. Sono anni che ti vedo arrancare sulla sedia, che ti spingo quando entriamo al ristorante, che ti do il braccio quando devi uscire dalla macchina o che ti allungo il telefono, il giornale, gli occhiali perché sono molto, molto più veloce di te. Ma non avevo capito fino in fondo la micidiale fatica che fai per ogni più piccola cosa, mille fatiche al giorno, all'ora, forse al minuto.
La settimana che abbiamo passato insieme, a casa tua, tra ansie, sigarette, storie e migliaia di parole a te sarà servita di sicuro, visto che per una settimana ti è mancato l'uomo che hai a fianco e senza il quale la vita è molto più insopportabile, e io ti ho dato una mano a superare un momento difficile.
Ma credimi, a me è servita molto, molto di più.

giovedì 28 luglio 2011

reduci

Ma guardaci.
Siamo qua sul terrazzo, in ghingheri, donne con tacchi alti, vestitini, fresche di acconciatura. Gli uomini un po' più sportivi, anche se compaiono giacche e cravatte arrivate direttamente da una pesante giornata di lavoro. Ciascuno ha il suo bicchiere di vino bianco frizzante, una sigaretta, un cellulare che viene frequentemente consultato: noi siamo qua, ma a casa abbiamo lasciato figli, mamme anziane, babysitter, e non si sa mai che abbian bisogno di noi proprio adesso.
C'è un dj che mette musica che potrebbe essere nostro figlio, e nessuno lo considera finchè non partono i classiconi, My Sharona è un successo. Le donne si tolgono i tacchi e si mettono a ballare a piedi nudi, gambe abbronzate, gonne svolazzanti, décolleté generosi a mostrare morbidi seni che hanno allattato o seni artificiali che si sono regalate per sconfiggere la naturale forza di gravità e la meno naturale ansia da invecchiamento.

Siamo patetici. Siamo eroici. Siamo ridicoli. Siamo teneri. Chiacchieriamo di vacanze, di figli - chi li ha - del rimpianto di non avene avuti, di saldi, di vecchi amici o compagni di scuola smarriti per strada e nemmeno più cercati. La musica, il vino frizzante, i vestiti leggeri, le sigarette li usiamo per mascherarci da uomini e donne felici, almeno stasera, almeno su questo bel terrazzo da cui si vede il fiume.

Siamo reduci. Ognuno con le sue storie trafitte, le sue delusioni, le amarezze. Amori finiti, lavori deludenti, figli preoccupanti, ce li portiamo addosso ma stanotte sono più leggeri, stanotte festeggiamo, stanotte le donne ballano a piedi nudi e gli uomini si raccontano i progetti delle vacanze. Domani avremo tutti di nuovo cinquant'anni, ma adesso c'è My Sharona, lasciami andare a ballare.

mercoledì 27 luglio 2011

potevamo invecchiare

C'è gente che quando vede due ragazzi giovani innamorati che si abbracciano, si sorridono, si tengono per mano, si baciano per strada pensa a quanto sono fortunati a essere innamorati così, e così giovani, e così abbracciati. E allora gli viene il magone, e un po' li invidia.
Io no, per niente.

A me il magone viene quando vedo due vecchi, sottobraccio, camminare lenti; lei aspetta lui, il suo passo si sintonizza con quello dell'altro, gli occhi sfuocati si guardano attraverso occhiali dalle lenti spesse, lei dice qualcosa e lui le chiede di ripetere perché ci sente poco, lui ha comprato il giornale, magari portano a spasso un vecchio cane. Si sorridono, si guardano come volessero baciarsi ma non lo fanno perché non osano. Perché sono vecchi.

Ecco, a me quando vedo quelle coppie di vecchi lì mi viene da piangere. Perché penso che avremmo potuto invecchiare insieme, avremmo potuto camminare piano, prenderci sottobraccio, comprare il giornale e lentamente tornare verso casa, uno che aspetta l'altro, uno che si sintonizza con il passo dell'altro, come abbiamo sempre fatto e come non facciamo più.

mercoledì 20 luglio 2011

cicatrici d'amore

(Posizione)
Parte anteriore della caviglia

(Cause)
L’amore. Nel senso di fare l’amore, ed essere così innamorati e così rintronati da non accorgersi di stare appoggiando la gamba, più precisamente la caviglia, sulla lampadina incandescente che è l’unica luce nella stanza, piazzata lì, vicino al letto, in una notte d’estate. L’aria è bollente, noi ci amiamo da morire, il nostro cuore trabocca di caldo ma anche il nostro corpo non scherza. E’ agosto, la città è vuota ma noi la riempiamo e ci bastiamo e mangiamo poco e beviamo molto e ascoltiamo un sacco di musica e ci guardiamo negli occhi fino alla nausea e abbiamo ventiquattro anni e ci amiamo, ma forse questo l’ho già detto.
Restiamo abbracciati per secoli e poi rifacciamo l’amore e io sento dentro di me un migliaio di sensazioni bellissime, ma non sento – fuori di me, sulla caviglia – questo caldo incandescente, elettrico, artificiale, e quando inizio a sentirlo ormai è tardi: ho un’ustione grande come una moneta da cento lire, gonfia e vescicosa.
Ci tocca correre al Pronto Soccorso e mentre entriamo pensiamo a una scusa da raccontare – mi sono addormentata, mi è caduta dell’acqua bollente sul piede – ma quando ci fanno entrare lui dice Si è scottata mentre facevamo l’amore, così, semplicemente. Il medico di turno sorride e io sento che quest’uomo lo amerò per sempre e mi viene da piangere, e mica solo per l’ustione.

(Conseguenze)
Quell’amore è durato tantissimo, le cento lire sono diventate euro. Adesso è finito, e io sono ancora piena di ferite e di cicatrici per quella fine. Un giorno, forse, quelle ferite guariranno, quelle cicatrici scoloriranno. Ma quella sulla caviglia la porto in giro con orgoglio, la curo con devozione, perché ho avuto la fortuna di conoscere l’amore almeno una volta, e quella notte di agosto brucerà per sempre.

grazie a Barabba edizioni, una casa editrice inesistente che pubblica dei libri gratis. E che ha pubblicato anche la mia cicatrice

sabato 9 luglio 2011

come un vecchio rimorso o un vizio assurdo

Ieri per la prima volta ho pensato alla mia morte.
No, non è vero, ci avevo già pensato altre volte, ma era quando stavo così male che pensarci era un conforto, un desiderio, una tensione verso il momento in cui tutta la mia disperazione sarebbe finita, una volontà.
Invece ieri ci ho pensato per la prima volta come qualcosa che succederà indipendentemente da me: un giorno, semplicemente, la vita continuerà per un sacco di persone che conosco, ma non per me.

Parlavo con una ragazza molto giovane che stava dicendo che aveva letto sul giornale che nel 2050 chi andrà in pensione percepirà meno di mille euro.
2050, mi son detta. Non tra qualche anno, non quando avrò settantanni, no. Nel 2050. E' molto probabile che io nel 2050 sarò morta. In quel momento l'ho quasi toccata, annusata, questa sensazione. Era diversa da quando ti capita di pensare che fra tanti anni ti sposerai, o avrai dei figli, o ti laureerai o andrai in pensione, quelle cose che ti sembrano lontane, irraggiungibili perché manca ancora tanto tempo, anche se poi in quel tempo lì ti ci imbatti molto velocemente.
Era diversa, sì. Era quasi una certezza.
Così mi è colata addosso un'onda di tristezza che poi mi scappava via da tutte le parti, e mi è venuto un po' da piangere.
Ma solo un po'.

lunedì 4 luglio 2011

Il Signor Bonaventura

Questa è la storia del Signor Bonaventura, che di nome fa Massimo ed è un amico mio.
Il Signor Bonaventura qualche tempo fa aiutava un suo amico a cercare casa nel quartiere dove abita lui, San Salvario, che, come presto scoprirete se andrete avanti nella lettura, nasconde nelle sue vie sporche e nei suoi palazzi decadenti certi tesori che uno manco si immagina. Orbene un giorno il Signor Bonaventura si recò a casa di una vecchina che aveva messo un annuncio di vendita perché era sola al mondo e viveva in una casa troppo grande per lei, piena di mobili e di camere da tenere pulite, e lei era troppo vecchia e troppo stanca per stare dietro a una casa così grande.
Quando il Signor Bonaventura entrò in casa, nella cucina che odorava di caffè e di vecchie drogherie di una volta come dice Paolo Conte, si trovò dinanzi un tavolo che cozzava violentemente con il resto dell'arredamento, tutto centrini e foto sbiadite e odore di cera.

Il Signor Bonaventura rimase assai stupito, un po' come se si fosse trovato davanti il monolite di 2001 Odissea nello spazio. Egli riconobbe subito il tavolo, che mai avrebbe potuto permettersi nemmeno nella versione moderna che è una copia perfetta dell'originale, figurarsi l'originale vero e proprio.
La vecchina si accorse dello sguardo a metà tra lo stupito e lo sbavante del Signor Bonaventura, e mentre preparava il caffè (le vecchine hanno sempre un caffè da offrire, per quanto sole e vecchie siano) gli disse:
- Se se lo porta via glielo regalo, che ce l'ho dal 1958 e tra l'altro non mi è mai piaciuto. Piaceva tanto a mio marito ma adesso lui non c'è più e io ho altri ricordi di lui.
La vecchina non aveva ancora finito la frase che già il Signor Bonaventura si era precipitato a casa, aveva preso la macchina, aveva tirato giù i sedili e in un lampo era ritornato da lei. Finì di bere il suo caffè, ringraziò la vecchina e si caricò in macchina il tavolo Tulip di Eero Saarinen disegnato negli anni '40 per il MOMA di New York. Precisamente questo qua:


La morale della favola è che cambiano i tempi ma i Signori Bonaventura si portano sempre a casa, in un modo o nell'altro, il loro Milione.