venerdì 16 dicembre 2011

Meringhe e madeleine

Ieri, dopo tanto, tantissimo tempo, mi è capitato di passare a piedi nel tratto di corso Dante che va da via Nizza a Corso massimo d’Azeglio. Ero leggermente in anticipo e non faceva troppo freddo, così ho fatto un po’ la flaneuse in una zona che un tempo, tantissimo tempo fa, frequentavo tutti i giorni, all’andata e al ritorno da scuola. Ero una ragazzina, facevo il ginnasio e l’autobus mi lasciava a dieci minuti di cammino dal Liceo Alfieri e io, con il mio zainetto, il pesantissimo Castiglioni Mariotti o il Rocci a seconda delle materie che avevo quel mattino, avanzavo faticosamente alle otto del mattino per arrivare a scuola.


La pasticceria all’angolo di via Madama Cristina c’è ancora, anche se rinnovata e più moderna. All’uscita di scuola ci fermavamo a comprare qualcosa da mangiare, e un mio compagno nonché primo fidanzatino si comprava sempre una meringa e se la mangiava nel tragitto, sporcandosi inevitabilmente di panna o di spuma d’uovo. Ricordo che l’andata, verso scuola, era densa di agitazione, paure, problemi di interpretazione sulla versione di greco o di latino, calcoli sulle programmate. Il ritorno invece era più rilassato, colmo di aspettative sul pomeriggio o di buone intenzioni sullo studio per il giorno dopo.

Una volta arrivata davanti alla porta della scuola ho rallentato il passo: le luci erano tutte accese – erano circa le sei di sera – e mi sono fermata a guardare il grande ingresso spoglio in cui al mattino ci si trovava tutti prima che si aprissero le porte: allora le grandi vetrate che danno sul corso erano tutte appannate dal fiato di ragazzini assonnati, per terra giacevano cartelle, borse, libri consumati dallo studio e dalle sottolineature con evidenziatori di ogni colore, e dal chiacchiericcio di fondo si distinguevano sempre le stesse parole : interrogazione, assenza, ripetizioni, compito in classe, fogli protocollo.

Poi ho alzato la testa verso il quarto piano, sull’aula d’angolo in cui ho passato tante ore della quarta ginnasio, e mi è venuto in mente il primo giorno di scuola in cui, eccitato e spaventato, un gruppo di ragazzini è entrato per la prima volta un po’ spaurito e ha trovato sulla lavagna una scritta lasciata dai ragazzi più grandi: quousque tandem, Caterina, abutere patientia nostra? La nostra insegnante di tutte le materie letterarie si chiamava Caterina e già qualche giorno più tardi avevamo perfettamente compreso il senso di quella scritta.

E’ stata una breve passeggiata, quella di ieri, ma intensa : dolce come una meringa, malinconica come una madeleine.



sabato 3 dicembre 2011

Regolamento di condominio


Ancora non ci credo.
Guardo la copertina, sillabo le parole, lenta, incerta, balbettante.
Eppure c'è proprio il mio nome, lì sopra. Sono io quella scritta bianca su fondo nero, e dietro la copertina ci sono parole pensate, buttate giù in fretta poi riprese, arrotondate, rielaborate da me.
Curate, cancellate e riscritte.
Odiate.
Amate.
Soprattutto vissute, una per una, dalla virgola alla metafora.
Sono io l'autrice di questo piccolo libro che mi è costato un'estate in città e così tante paure. E incoraggiamenti dagli amici, e curiosità, e dubbi sulla scrittura e sulla mia capacità di scrivere, e discussioni infinite sullo stile, sulla forma. E sul contenuto, che in gran parte mi riguarda da vicino. Da molto vicino.
C'è tanto di me, qua dentro. Chi mi conosce lo capisce meglio di chi non sa chi io sia, ma credo che si senta comunque.
E' mio.
L'ha pubblicato Blonk e si può acquistare qui o qui.

Mi piacerebbe che lo leggessero tutti.
Ho paura che lo leggano tutti.
Sono contenta, sono agitata, sono un fascio di nervi.
Oggi ho anche un po' pianto, perché non c'è gioia che non trasfiguri, anche solo per un attimo, in malinconia.

Passerò questo sabato sera a guardare la copertina e a chiedermi ancora, per l'ennesima volta, se sia tutto vero.




martedì 25 ottobre 2011

madame Bovary c'est moi

Da qualche tempo mi piace portare gonne molto lunghe che quasi toccano per terra. Ne ho di molti colori, anche se quelle che preferisco sono due: una rossa in shantung di seta che mi sono fatta fare in India e un'altra nera, di un tessuto un po' lucido, lunga fino ai piedi.
La cosa che mi piace tanto  fare,  quando metto queste cose,  è salire o scendere le scale: perché devo raccogliere la gonna  con le mani, tirandola leggermente su per non inciampare nei gradini. E un gesto bellissimo, molto femminile, molto ottocentesco. Immagino quante Emme Bovary, quante Anne Karenine, quante Nastassje Filippovne abbiano ripetuto questo gesto infinite volte, salendo o scendendo le scale delle loro case, andando a trovare i loro amanti, fuggendo in qualche angolo nascosto per piangere le loro lacrime d'amore. Mentre salgo le scale dell'ufficio o di casa mia, o le scale mobili della metropolitana, me le vedo tutte intorno, minute, nervose, eleganti e raffinate, ripetere con me questo gesto così sensuale. E mi sento, a volte, meno sola. 

domenica 23 ottobre 2011

Se potessi avere ottantamila euro



Con ottantamila euro puoi fare il giro del mondo in alberghi da sogno dove ci sei solo tu, il mare e una squadra di camerieri che ti sventolano foglie di palma per rinfrescarti; puoi comprarti un auto della puta madre, nuova fiammante, che fa i 200 all’ora, con tutti gli optional che hanno quelle sigle incomprensibili; puoi dare un corposo anticipo per comprarti la casa della tua vita; puoi rivoluzionare l’arredamento di tutta la casa e già che ci sei metterci dentro una chaise longue di Le Corbusier; puoi toglierti qualche sfizio innocente, orologi d’oro, gioielli, carinissimi tailleur di Chanel.

Oppure puoi prendere un aereo da Lagos a Torino, Milano o Roma, metterti un paio di stivaloni al ginocchio con zeppa da 15 centimetri, una minigonna che a malapena ti copre il culo anche nelle notti invernali, e adescare clienti sculettando sui trampoli.
Ottantamila euro è la cifra che le donne nigeriane devono restituire per essere riuscite ad arrivare in Italia. Vale la pena, no? 

sabato 22 ottobre 2011

il mio piccolo figlio di puttana

E' piccolo, è malato, la prima di una lunga serie di piccole malattie che si prendono all'asilo.  Non ha ancora due anni, è nero, nerissimo, gli occhi sono lucidi, la bocca, grande e sporgente, è secca. Respira male, ha tantissima tosse, la fronte calda e le mani gelate. Quando arrivo a casa sua mi accoglie sulla porta con le braccia aperte per farsi prendere in braccio e un sorriso enorme che da grande sarà la sua benedizione e la sua tecnica di seduzione, ma adesso è solo un sorriso da bambino nero malato. Appena lo prendo in braccio si accascia contro di me, perché la gioia di vedermi si contende con l'influenza tutte le sue energie, e adesso l'influenza sta vincendo.
Anche sua madre mi aspettava sulla porta, già vestita e con il portafogli in mano, per lasciarmi in consegna il bambino e correre in farmacia a comprare le medicine che le hanno prescritto in ospedale, dove l'ha portato stanotte perché non sapeva cosa fare. Lei parla pochissimo e male l'italiano, ma stanotte si è presa un taxi, è volata col bambino in ospedale, ha aspettato al pronto soccorso, ha fatto visitare il bambino, non ha chiuso occhio. E' stremata. Corre via biascicando un grazie, corre a cercare una farmacia, e io resto lì. Con questo piccolo, bellissimo figlio di puttana, figlio di chissà chi, che mi si addormenta in braccio. Sua madre parla poco, non conosco bene la sua storia,  quando è arrivata da noi era incinta e non faceva più il lavoro che faceva prima, quello per cui l'hanno mandata qui dall'Africa. Sua madre non ha un passato perché l'ha cancellato, anche se non credo che l'abbia dimenticato.
E questo bambino è quello che la tiene in piedi, che la ricostruisce, che la guarisce anche se è ammalato.
Guarirà, questo bambino, perché l'influenza si cura. Non sono altrettanto sicura che guarirà lei. 

domenica 2 ottobre 2011

Proprio io

Proprio io, quella che la domenica difficilmente si schioda dalla sua casa, dal suo letto, dai suoi libri, sono andata a fare il pranzo della domenica fuori porta.

Proprio io, quella che (quando può) sceglie  ristorantini etnici con nomi esotici intorno a Piazza Vittorio o nelle vie un tempo buie e adesso troppo modaiole del Quadrilatero o di San Salvario, sono andata a pranzo nella piatta e anonima periferia, a Leinì, luogo di cui fino a oggi ignoravo l'esistenza, al ristorante "La bela ranera" (sarebbe la signora che va a cercare le rane, l'ho scoperto oggi)

Proprio io, quella che se pranza o cena fuori lo fa con gli amici più stretti, che amano la discussione, il gioco di parole pseudo letterario, la boutade da vecchi compari di una vita, ho pranzato con una donna di ottant'anni e la sua badante e ho parlato di medicine, ospedali, mariti morti, vedove sopravvissute.

Gli spigoli si arrotondano, gli aculei rientrano, l'acidità si stempera. E' l'età, dicono.

sabato 1 ottobre 2011

Due paroline al mio subconscio

Ieri parlavo con un amico, no beh, non proprio un amico perché ci conosciamo da poco tempo, però insomma è una persona che mi piace e con cui mi sento a mio agio a parlare, e alla quale ho anche confidato qualcosa di me e dei miei noiosissimi complessi d'inferiorità nei confronti dell'universo mondo, della mia mancanza d'autostima e insomma di quelle cose che le donne raccontano e che gli uomini in genere pensano Eh ma che palle questa qua. Insomma - dicevo - stavamo parlando e lui mi ha detto che devo avere più fiducia in me, che devo credere di più a quello che faccio perché lo faccio anche bene, che devo fidarmi di me stessa, un sacco di cose carine che mi hanno fatto molto piacere.

E così questa notte, mentre dormivo beatamente il sonno dei giusti e dei complessati, il mio subconscio ha lavorato per me e mi ha elaborato un sogno, confezionato ad hoc, per indicarmi la Via, per dimostrarmi che anche io valgo qualcosa, che sono una donna in gamba : mi ha cucinato lì per lì una storia in cui ricevevo una telefonata da un giornale che voleva intervistarmi in merito a un progetto letterario di cui mi sto occupando in questi giorni nella vita reale.

 Solo che probabilmente anche il mio subconscio ha bisogno di una regolatina al minimo e magari di una bella revisione, o forse è solo fuori allenamento, o magari sono solo i primi goffi tentativi che non sempre riescono proprio bene: infatti la testata che mi voleva intervistare era la Gazzetta dello Sport, un giornale di cui so solo che è rosa e che non ho mai aperto, che notoriamente non si occupa di letteratura, e mi facevano delle domande al telefono mentre era in corso una partita importantissima - che so, Italia Germania Ovest ai mondiali dell'82 (sì, ho googlato) - e io non sentivo nulla se non dei boati infernali.

 Ok, vado a dire due paroline al mio sè interiore.

domenica 18 settembre 2011

et in Arcadia ego

Stamattina avevo appuntamento con il mio amico Alessandro per un caffè in piazza Vittorio alle 10, ma lui era in ritardo. Molto ritardo. Ritardissimo. Giustificato eh, bambini da guardare, cose di famiglia, ma intanto io me ne sono stata seduta al bar da sola per un'oretta. Il cielo era grigio e impregnato di umidità, era piovuto tutta la notte. Dalla mia postazione sotto i portici intravedevo uno squarcio di vecchi palazzi e ipotizzavo il fiume marronastro un po' più in là. Ho tirato fuori il kindle e mi sono messa a leggere un libro che racconta di un viaggio a Varanasi, un viaggio che ho fatto anch'io qualche anno fa. Il libro non è un capolavoro ma racconta benissimo le sensazioni di un occidentale al cospetto di quella magnifica e orribile città: un costante cozzare di sentimenti contrastanti, odori repellenti e profumi estatici, aggressioni al corpo sempre più vulnerabile e deperito e mistici abbracci con un divino che è allo stesso tempo ridicolo e vertiginoso. Varanasi è pura distopia: la desideri ardentemente e la odi, ti fa schifo e ne sei attratto, e dentro c'è tutto l'umano e il sovrumano che ti accoglie amorevolmente e ti ingloba nelle sue viscere come un pitone, ti fa morire di una morte lenta ed escrementizia e ti fa vibrare di un amore orgiastico ed ebbro. Io ero lì, sola, al tavolino di un caffè, e però non ero lì, ero sul ghat Manikarnika ad evitare mani sudicie e pozze di liquami, a inebriarmi di colori e denti bianchissimi, a tossire per il fumo esalante dalle pire funebri, a vergognarmi e a non potermi esimere dalla curiosità morbosa di vedere un cadavere bruciare, la pelle staccarsi e contorcersi nelle fiamme, a cercare conforto per le mie narici intossicate con i pochi sprazzi di profumo d'incenso per guarirle dalla puzza di morte. Ero a pochi metri dal Po e però vedevo il Gange brulicante di insidie scorrermi davanti con tutto il suo millenario carico di preziosissimi tessuti funebri, carcasse galleggianti, sacchetti di plastica. La nebbiolina umida di Torino si trasformava nel soffocante vapore infernale dell'afa che alle 10 del mattino, a Varanasi, ti toglie già il fiato. Poi è arrivato il mio amico Alessandro, in ritardo, in ritardissimo, Mi sono sentita come se fossi tornata appena un minuto prima dall'altra parte del mondo, e il cappuccino aveva il sapore del primo cappuccino che prendi nel primo aeroporto italiano in cui arrivi, dopo un mese di astinenza e audaci tentativi malriusciti di trovarne uno che sia anche solo passabile. E la nostalgia era quella del ritorno da un viaggio che che vorresti raccontare ma che non ti esce perché è ancora tutto aggrovigliato tra stomaco, intestino, occhi, naso, e mani, e sei contento di essere tornato ma sai che non è finita qui, che sei ancora preda e vittima volonterosa del flautato e intollerabile richiamo dell'India.

lunedì 12 settembre 2011

due righe su di me

Oggi mi hanno chiesto di scrivere qualcosa su di me. Una piccola presentazione, poche righe, qualcosa di personale magari spiritoso, un po' ironico. E siccome io non sono brava a descrivermi, mi hanno suggerito di chiedere a qualcuno che mi conosce bene, tanto bene da essere affettuoso e anche critico, che sappia tracciare un piccolo ritratto in poche parole. Ce ne sono, di persone così. Ci sono amici che sono fratelli, che hanno vissuto con me i momenti più felici e quelli più duri, che hanno gioito delle mie vittorie e pianto della mia disperazione. Che hanno condiviso momenti importanti, viaggi, canzoni, inutili serate o cene vivaci e alcoliche, animate discussioni e insopportabili dolori. Ma a me sei venuto in mente tu. Sarei stata felice di chiedere a te di descrivermi. Ti immagino con lo sguardo ironico, la bocca lievemente atteggiata a una smorfia che può diventare un sorriso o una sferzante presa in giro, la consapevolezza di essere quello che sa descrivermi meglio e l'orgoglio per questa mia piccola vittoria. Immagino la tua scrittura nervosa e appuntita, che cerca una regola e un controllo e a quella regola e a quel controllo sfugge costantemente. Sarei stata felice di scoprirmi attraverso le tue parole, una volta di più sapendo già che cosa avresti scritto, su cosa ti saresti soffermato, cosa avresti tralasciato. Chiederò a qualcun altro. Che peccato.

domenica 11 settembre 2011

di vite riciclate




Stamattina sono andata al Gran Balon, il mercato delle pulci che si tiene qui a Torino una volta al mese. Era una mattinata di sole, ho legato la bici ben salda a un palo - in quella zona c'è il rischio che te la rubino e che ti tocchi ricomprarla mezzora dopo - e me ne sono andata a spasso per i banchetti. Non c'era moltissima gente, forse a settembre si deve ancora riprendere il giro, qualcuno è ancora in vacanza, ci si può godere uno degli ultimi weekend al mare. Però ho notato che c'erano molte più donne che uomini. Passeggiano sole, occhiali scuri e sandali comodi per difendersi dal dissestato pavè di Porta Palazzo, qualcuna con un cane. Il loro passo - il nostro, dovrei dire - è lento, ci fermiamo curiose davanti a banchetti di libri usati, di vecchi vestiti, misuriamo improbabili cappelli che non metteremo mai. Sorridiamo davanti a giocattoli rotti che avevamo da piccole, a scatole di biscotti che nostra madre, o nonna, usava per il cucito. Qualcuna parla al telefono, combina un incontro, ma la maggior parte di noi è arrivata da sola e da sola se ne tornerà a casa.
Uomini soli, nessuno.
Io pensavo che forse a noi piace di più che agli uomini vagabondare senza meta per mercatini. Un po' perché non ce l'abbiamo, una meta : a casa non ci aspetta nessuno, non dobbiamo correre a preparare da mangiare, abbiamo tempo e possiamo spenderlo come vogliamo. Un po' anche perché siamo più brave a immaginare usi diversi per le carabattole che si trovano al mercato: un vecchio vestito che diventa un elegante abito da sera per serate che non vivremo, una etagère di legno imbarcato che ridipingiamo di rosso per tenerci i vasi sul balcone, un lenzuolo di lino, ruvido e ricamato, che useremo come tenda per farci ombra in camera da letto.

Forse siamo più brave ad adattarci: ci accontentiamo di quello che c'è, gli facciamo prendere un po' d'aria per togliergli l'odore di stantìo, lo laviamo, lo coloriamo, e diamo una svolta alla casa, o al nostro guardaroba. E io, che in questo sono bravissima, l'ho fatto anche con la mia vita. Ho preso quello che restava, gli ho fatto prendere aria, ci ho passato sopra una mano di colore vivace e brillante, e ho ricostruito le parti che mancavano. E' parecchio traballante, la mia vita, come un vecchio tavolo sotto la cui gamba devi mettere un rialzo altrimenti ondeggia da ogni parte; come un vestito vintage che devi aggiustare perché l'orlo è scucito e manca qualche bottone. Ma conserva la bellezza di di un lustro passato, e contiene la speranza di un dignitoso futuro.

mercoledì 31 agosto 2011

l'inverno del nostro scontento

Io sono una privilegiata. Ho visto l’alba su un vulcano a Giava, con le nuvole che lo circondavano e sembravano un mare di panna. Ho visto una balena a Frazer Island in Australia, dall’alto, su un piccolo Cessna a sei posti, la balena era gigantesca e solitaria e mi sono venute le lacrime agli occhi. Ho messo i piedi nel Gange a Varanasi e ballato con i pellegrini shivaiti che arrivavano a piedi da tutta l’India. Ho passeggiato per la 5 Avenue e cenato in piccoli locali del Village. Mi sono bagnata nelle acque del Giordano e ho visto il tramonto nel deserto del Wadi Rum.

Ma quest’anno non sono andata in vacanza perché, per motivi che è inutile e per me anche molto triste spiegare, non me lo potevo permettere.
Così sono qua che rimugino, di pessimo umore. Mi dico che l’inverno sarà più duro degli altri, che senza un po’ di mare mi prenderò un sacco di malanni, che non ho “staccato la spina” nemmeno un po’ perché non lavorare e starsene a casa senza poter fare nulla non è veramente una vacanza, e insomma sono infastidita, angosciata e rabbiosa.

E me ne vergogno. Perché c’è gente che in vacanza non ci va mai, oppure è sempre in vacanza perché non ha un lavoro. C’è gente che il lavoro lo perderà presto e i loro bambini il mare lo vedranno alla televisione. C’è gente che sta male, precariamente attaccata alla vita grazie a tubi e monitor. E io, che sono una privilegiata, son tutta un lamento e un mugugno perché per una volta ho dovuto rinunciare a un piacere, a un lusso, a qualcosa di cui la maggior parte delle persone non potrà godere mai, in tutta la sua vita.
Ma questo pensiero non basta a consolarmi. Per quanto nel mio piccolo mi dedichi agli altri, cerchi di aiutare, sia molto attiva nel volontariato, passi molto del mio tempo libero in queste attività, sono e rimango una figlia del mio tempo, individualista, consumista, attenta prima di tutto ai miei bisogni, ai miei piaceri.
Così oltre al mugugno e al pessimo umore per le vacanze mancate, sto male perché mi sento un mostro di egoismo; così alterno la vergogna alla tristezza, il fastidio al disprezzo di me stessa.
Sarà un duro inverno in cui, quanto a pensieri negativi, non ci faremo mancare niente.

giovedì 25 agosto 2011

Guernica total


I funerali Toraja in Sulawesi (Indonesia) durano circa una settimana, e prevedono scontri di bufali, feste, preghiere, infine un rituale sanguinolento in cui un parente del defunto si accomoda al centro di un cerchio composto da dodici bufali e armato di coltellaccio li sgozza uno dietro l'altro girando su se stesso. I poveri animali cadono a terra agonizzanti, il sangue esce a fiotti e in un attimo il terreno è completamente rosso. Io ero ammutolita dall'orrore, mentre la mia amica spagnola, insieme alla quale ho assistito a questa cerimonia apocalittica, mi ha guardato, pallida e spaventata, e ha commentato : "Guernica total".

Io trovo che mai commento fu più azzeccato.

martedì 16 agosto 2011

Mai più

Non è un respiro, è un singhiozzo quello che la scuote mentre con gli occhi chiusi e il volto gonfio sta cercando di rimanere attaccata alla sua vita che, incurante e frettolosa, si allontana.
Un singhiozzo da neonato, ogni boccata è ossigeno che brucia in gola e ustiona il palato ma che stupisce per la sua fluida e dolorosa naturalezza.
Un neonato arriva, lei se ne sta andando. E' attaccata a strumenti digitali, incomprensibili numeri blu occhieggiano dai monitor. La mistica spaventevole e rassicurante insieme della tecnologia che monitorizza meccanicamente la vita, che continuamente codifica e decodifica il battito cardiaco, il respiro irregolare, le funzioni vitali. Un'equazione improbabile, come si fa a tradurre il defluire dell'esistenza con funzioni matematiche, con impulsi elettronici, con sensori totalmente insensibili al dramma che si sta vivendo intorno a questo letto.

Suo figlio è diventato suo padre e sua madre. Le passa delicatamente la crema sul viso e sul collo, le inumidisce la fronte con una pezza bagnata, le accarezza la mano esanime, le sussurra all'orecchio vecchi ricordi, nomignoli infantili, rassicurazioni. E' stanco e triste, questa è la sua ultima occasione, lo teme e lo spera. Questione di ore, hanno detto. La guarda con dolcezza e infinita compassione; si sente fortunato perché gli è stato regalato qualche giorno prima che lei scivolasse in questa pietosa incoscienza farmacologica, ed è stato atroce e bellissimo insieme. Quando è arrivato in ospedale, affannato e invaso dalla fretta di vederla lei gli ha fatto una smorfia, gli angoli della bocca ripiegati all'ingiù, hai fumato eh?, e poi ha cercato goffamente un abbraccio.

Mentre mi accompagna fuori dall'ospedale - sospetto che sia geloso di ogni piccolo istante rubato a loro due, da soli - parliamo del mai più, questo maledetto mai più che non riusciamo a capire e ci danniamo l'anima perché è così misterioso e minaccioso e violento e inderogabile, e sotto il cielo serale di un ferragosto deserto ci sentiamo così umani

lunedì 1 agosto 2011

Ocleria e la tecnologia

Ieri sera ero su Skype con una mia amica e a un certo punto è entrata in casa Ocleria, la mia vicina.
Sì, tengo la porta aperta. Abito in una vecchia casa di ringhiera, il balcone unisce tre case e altrettante (anzi qualcuna in più) vite, e d'estate ci si passa un gelato, due pomodori appena comprati al mercato, si va a bere il caffè di qua o di là, si chiacchiera del caldo o del maltempo.
Così, dicevo, ieri sera Ocleria entra in casa e mi sente parlare nell'altra stanza, e temendo che sia impazzita completamente perché mi sente parlare da sola viene in camera mia per accertarsi che tutto vada bene.
E scopre - oh! meraviglia! - che dal computer puoi non solo parlare, ma anche vedere la persona con cui parli.
E' un'emozione che non riesce a reggere, deve sedersi un attimo, ha il fiato corto, continua a dire Ma che bellezza! ma che meraviglia! Ma è incredibile! e quasi non ci crede, e quasi ne ha paura. Le dico di avvicinarsi e le metto a disposizione la mia sedia, siediti qua, che stai più comoda, poi mi allontano dalla webcam ed ecco che appare lei, il grembiule a fiorellini, gli occhiali di cui non ha mai cambiato la montatura dal 1970 circa, e ride a vedersi nel riquadro piccolino, guarda, è arrivata la befana - dice - ride a più non posso, parla con la mia amica (che non conosce), le augura buone vacanze e piacere, tanto tanto piacere di averla conosciuta, signora, e mi saluti suo marito, ah ma si vede anche suo marito, ma è bellissima questa cosa, e non la finisce più di salutare e di guardarsi e di sorridere.
E io penso che è una cosa fantastica sorprendersi ancora, a settantasei anni, e mi sento come se le avessi fatto un bel regalo.

venerdì 29 luglio 2011

Della stanchezza

Tu non lo sai cosa vuol dire stancarsi. Credi di essere stanca dopo una giornata di merda, dopo aver fatto le grandi pulizie, dopo aver camminato per ore in una città da visitare con la cartina in mano. Ma non è mica quella la stanchezza.

La stanchezza è fare tre passi per andare in bagno. Dover chiedere aiuto a qualcuno per poter entrare nella doccia. Spingere con i guanti da ciclista le ruote enormi della sedia a rotelle. Cercare un frammento del tuo corpo che non sia ancora stato torturato dall'ago della siringa, il tuo odiato e salvifico appuntamento quotidiano con le medicine che ti conservano in vita. Aspettare che qualcuno ti tagli la pizza mentre i tuoi amici si avventano con voracia e allegria sui piatti fumanti.

Io non lo sapevo, davvero. Sono anni che ti vedo arrancare sulla sedia, che ti spingo quando entriamo al ristorante, che ti do il braccio quando devi uscire dalla macchina o che ti allungo il telefono, il giornale, gli occhiali perché sono molto, molto più veloce di te. Ma non avevo capito fino in fondo la micidiale fatica che fai per ogni più piccola cosa, mille fatiche al giorno, all'ora, forse al minuto.
La settimana che abbiamo passato insieme, a casa tua, tra ansie, sigarette, storie e migliaia di parole a te sarà servita di sicuro, visto che per una settimana ti è mancato l'uomo che hai a fianco e senza il quale la vita è molto più insopportabile, e io ti ho dato una mano a superare un momento difficile.
Ma credimi, a me è servita molto, molto di più.

giovedì 28 luglio 2011

reduci

Ma guardaci.
Siamo qua sul terrazzo, in ghingheri, donne con tacchi alti, vestitini, fresche di acconciatura. Gli uomini un po' più sportivi, anche se compaiono giacche e cravatte arrivate direttamente da una pesante giornata di lavoro. Ciascuno ha il suo bicchiere di vino bianco frizzante, una sigaretta, un cellulare che viene frequentemente consultato: noi siamo qua, ma a casa abbiamo lasciato figli, mamme anziane, babysitter, e non si sa mai che abbian bisogno di noi proprio adesso.
C'è un dj che mette musica che potrebbe essere nostro figlio, e nessuno lo considera finchè non partono i classiconi, My Sharona è un successo. Le donne si tolgono i tacchi e si mettono a ballare a piedi nudi, gambe abbronzate, gonne svolazzanti, décolleté generosi a mostrare morbidi seni che hanno allattato o seni artificiali che si sono regalate per sconfiggere la naturale forza di gravità e la meno naturale ansia da invecchiamento.

Siamo patetici. Siamo eroici. Siamo ridicoli. Siamo teneri. Chiacchieriamo di vacanze, di figli - chi li ha - del rimpianto di non avene avuti, di saldi, di vecchi amici o compagni di scuola smarriti per strada e nemmeno più cercati. La musica, il vino frizzante, i vestiti leggeri, le sigarette li usiamo per mascherarci da uomini e donne felici, almeno stasera, almeno su questo bel terrazzo da cui si vede il fiume.

Siamo reduci. Ognuno con le sue storie trafitte, le sue delusioni, le amarezze. Amori finiti, lavori deludenti, figli preoccupanti, ce li portiamo addosso ma stanotte sono più leggeri, stanotte festeggiamo, stanotte le donne ballano a piedi nudi e gli uomini si raccontano i progetti delle vacanze. Domani avremo tutti di nuovo cinquant'anni, ma adesso c'è My Sharona, lasciami andare a ballare.

mercoledì 27 luglio 2011

potevamo invecchiare

C'è gente che quando vede due ragazzi giovani innamorati che si abbracciano, si sorridono, si tengono per mano, si baciano per strada pensa a quanto sono fortunati a essere innamorati così, e così giovani, e così abbracciati. E allora gli viene il magone, e un po' li invidia.
Io no, per niente.

A me il magone viene quando vedo due vecchi, sottobraccio, camminare lenti; lei aspetta lui, il suo passo si sintonizza con quello dell'altro, gli occhi sfuocati si guardano attraverso occhiali dalle lenti spesse, lei dice qualcosa e lui le chiede di ripetere perché ci sente poco, lui ha comprato il giornale, magari portano a spasso un vecchio cane. Si sorridono, si guardano come volessero baciarsi ma non lo fanno perché non osano. Perché sono vecchi.

Ecco, a me quando vedo quelle coppie di vecchi lì mi viene da piangere. Perché penso che avremmo potuto invecchiare insieme, avremmo potuto camminare piano, prenderci sottobraccio, comprare il giornale e lentamente tornare verso casa, uno che aspetta l'altro, uno che si sintonizza con il passo dell'altro, come abbiamo sempre fatto e come non facciamo più.

mercoledì 20 luglio 2011

cicatrici d'amore

(Posizione)
Parte anteriore della caviglia

(Cause)
L’amore. Nel senso di fare l’amore, ed essere così innamorati e così rintronati da non accorgersi di stare appoggiando la gamba, più precisamente la caviglia, sulla lampadina incandescente che è l’unica luce nella stanza, piazzata lì, vicino al letto, in una notte d’estate. L’aria è bollente, noi ci amiamo da morire, il nostro cuore trabocca di caldo ma anche il nostro corpo non scherza. E’ agosto, la città è vuota ma noi la riempiamo e ci bastiamo e mangiamo poco e beviamo molto e ascoltiamo un sacco di musica e ci guardiamo negli occhi fino alla nausea e abbiamo ventiquattro anni e ci amiamo, ma forse questo l’ho già detto.
Restiamo abbracciati per secoli e poi rifacciamo l’amore e io sento dentro di me un migliaio di sensazioni bellissime, ma non sento – fuori di me, sulla caviglia – questo caldo incandescente, elettrico, artificiale, e quando inizio a sentirlo ormai è tardi: ho un’ustione grande come una moneta da cento lire, gonfia e vescicosa.
Ci tocca correre al Pronto Soccorso e mentre entriamo pensiamo a una scusa da raccontare – mi sono addormentata, mi è caduta dell’acqua bollente sul piede – ma quando ci fanno entrare lui dice Si è scottata mentre facevamo l’amore, così, semplicemente. Il medico di turno sorride e io sento che quest’uomo lo amerò per sempre e mi viene da piangere, e mica solo per l’ustione.

(Conseguenze)
Quell’amore è durato tantissimo, le cento lire sono diventate euro. Adesso è finito, e io sono ancora piena di ferite e di cicatrici per quella fine. Un giorno, forse, quelle ferite guariranno, quelle cicatrici scoloriranno. Ma quella sulla caviglia la porto in giro con orgoglio, la curo con devozione, perché ho avuto la fortuna di conoscere l’amore almeno una volta, e quella notte di agosto brucerà per sempre.

grazie a Barabba edizioni, una casa editrice inesistente che pubblica dei libri gratis. E che ha pubblicato anche la mia cicatrice

sabato 9 luglio 2011

come un vecchio rimorso o un vizio assurdo

Ieri per la prima volta ho pensato alla mia morte.
No, non è vero, ci avevo già pensato altre volte, ma era quando stavo così male che pensarci era un conforto, un desiderio, una tensione verso il momento in cui tutta la mia disperazione sarebbe finita, una volontà.
Invece ieri ci ho pensato per la prima volta come qualcosa che succederà indipendentemente da me: un giorno, semplicemente, la vita continuerà per un sacco di persone che conosco, ma non per me.

Parlavo con una ragazza molto giovane che stava dicendo che aveva letto sul giornale che nel 2050 chi andrà in pensione percepirà meno di mille euro.
2050, mi son detta. Non tra qualche anno, non quando avrò settantanni, no. Nel 2050. E' molto probabile che io nel 2050 sarò morta. In quel momento l'ho quasi toccata, annusata, questa sensazione. Era diversa da quando ti capita di pensare che fra tanti anni ti sposerai, o avrai dei figli, o ti laureerai o andrai in pensione, quelle cose che ti sembrano lontane, irraggiungibili perché manca ancora tanto tempo, anche se poi in quel tempo lì ti ci imbatti molto velocemente.
Era diversa, sì. Era quasi una certezza.
Così mi è colata addosso un'onda di tristezza che poi mi scappava via da tutte le parti, e mi è venuto un po' da piangere.
Ma solo un po'.

lunedì 4 luglio 2011

Il Signor Bonaventura

Questa è la storia del Signor Bonaventura, che di nome fa Massimo ed è un amico mio.
Il Signor Bonaventura qualche tempo fa aiutava un suo amico a cercare casa nel quartiere dove abita lui, San Salvario, che, come presto scoprirete se andrete avanti nella lettura, nasconde nelle sue vie sporche e nei suoi palazzi decadenti certi tesori che uno manco si immagina. Orbene un giorno il Signor Bonaventura si recò a casa di una vecchina che aveva messo un annuncio di vendita perché era sola al mondo e viveva in una casa troppo grande per lei, piena di mobili e di camere da tenere pulite, e lei era troppo vecchia e troppo stanca per stare dietro a una casa così grande.
Quando il Signor Bonaventura entrò in casa, nella cucina che odorava di caffè e di vecchie drogherie di una volta come dice Paolo Conte, si trovò dinanzi un tavolo che cozzava violentemente con il resto dell'arredamento, tutto centrini e foto sbiadite e odore di cera.

Il Signor Bonaventura rimase assai stupito, un po' come se si fosse trovato davanti il monolite di 2001 Odissea nello spazio. Egli riconobbe subito il tavolo, che mai avrebbe potuto permettersi nemmeno nella versione moderna che è una copia perfetta dell'originale, figurarsi l'originale vero e proprio.
La vecchina si accorse dello sguardo a metà tra lo stupito e lo sbavante del Signor Bonaventura, e mentre preparava il caffè (le vecchine hanno sempre un caffè da offrire, per quanto sole e vecchie siano) gli disse:
- Se se lo porta via glielo regalo, che ce l'ho dal 1958 e tra l'altro non mi è mai piaciuto. Piaceva tanto a mio marito ma adesso lui non c'è più e io ho altri ricordi di lui.
La vecchina non aveva ancora finito la frase che già il Signor Bonaventura si era precipitato a casa, aveva preso la macchina, aveva tirato giù i sedili e in un lampo era ritornato da lei. Finì di bere il suo caffè, ringraziò la vecchina e si caricò in macchina il tavolo Tulip di Eero Saarinen disegnato negli anni '40 per il MOMA di New York. Precisamente questo qua:


La morale della favola è che cambiano i tempi ma i Signori Bonaventura si portano sempre a casa, in un modo o nell'altro, il loro Milione.

giovedì 23 giugno 2011

Pinocchio



Oggi mia mamma mi ha regalato questo Pinocchio.
E' un regalo apparentemente non adatto a una donna di cinquant'anni che ha smesso di credere alla favole da un bel po', che è razionale e logica, con i piedi piantati per terra.
Non sono stata sempre così, una volta ero tutta poesia e citazioni di canzoni e occhi spalancati ed emozioni che ti schiantano. Poi, si sa, la vita. Son diventata più fredda, più cinica e disillusa, non mi commuovono più i film e difficilmente mi lascio andare a fantasie e sogni ad occhi aperti. Credevo a tutto, e ora non credo quasi più a niente. Son diventata un po' come questo Pinocchio qua, rigido, legnoso, talvolta con un'espressione sorridente e un cappello rosso, talvolta seduta come un manichino in mezzo alla mia vita.
Ma non è per questo che mia mamma mi ha regalato il Pinocchio.
L'ha comprato a una fiera di paese, era in giro con degli amici che l'hanno un po' guardata strano quando ha detto che il Pinocchio era per me che insomma proprio una bambina non sono più.
Ma io e lei sappiamo.
C'era anche un altro che avrebbe saputo, ma se ne è andato tanti anni fa, poco tempo dopo avermi regalato un Pinocchio come questo. Mi era venuta la scarlattina, avevo la febbre alta e lui una sera, tornando dal lavoro, mi porta questo pacchettino con il Pinocchio di legno, uguale identico a questo qua, solo più grande (o forse ero io che ero più piccola). Era bellissimo, adoravo quella sua giacchetta rossa, profumava di legno e di papà.
Non so dove sia andato a finire, son passati anni, traslochi, vite. Probabilmente ha viaggiato molto, magari gli sono mancata. Lui a me è mancato, tanto. Ma adesso è ritornato da me e se ne sta seduto sulla mia scrivania a guardarmi con i suoi occhioni fissi e un sorrisetto ironico. Mi dice che i ricordi tornano sempre, a volte fanno un po' male ma bisogna trovare loro un posto.
Io adesso a lui un posto l'ho trovato.

sabato 11 giugno 2011

Il suo bar

Il sabato mattina era dedicato alle pulizie di casa, quindi mia mamma non voleva fastidi intorno. Allora ci cacciava via, me e mio papà, che lei doveva aprire le finestre e far prendere aria e passare lo straccio per terra e sul pavimento bagnato non ci si doveva camminare.
Così mio papà mi prendeva per mano e si partiva per i giardinetti; lui si comprava il giornale, si fumava qualche sigaretta e io aspettavo il mio turno sull’altalena. Poi, dopo un’oretta, mi riprendeva per mano e si andava al bar.
Era un baretto piccolo, non lo ricordo bene (avevo solo quattro anni) il bancone era di fronte, entrando, e il signore del bar ci salutava gentilmente e mi faceva una carezza. A me piaceva stare lì dentro perché c’erano un sacco di cose da scoprire : bottiglie colorate, il distributore delle caramelle con quella grande manopola da girare dopo avere infilato dieci lire, un odore che era un misto di fumo, di vino, e di caffè. Lui mi faceva sedere sulle sue ginocchia e io mi sentivo al sicuro.
Poi si faceva dare due schedine del Totocalcio, una la compilava da solo e l’altra la compilava facendo scegliere a me, e a me piaceva inventare ogni volta delle cantilene nuove, uno ics due, due due ics, lui a volte sorrideva, a volte diceva Noo, questo no! Ma poi metteva quello che dicevo io.
Ma il momento più bello era quando lui ordinava da bere: un Punt e Mes per lui e uno per me. E quando il barista arrivava col vassoio e ci lasciava sul tavolo quei due bicchieri pieni di quel liquido rosso e trasparente, con una ciotola di patatine, io mi sentivo grande e importante perché bevevo la stessa cosa che beveva il mio papà, e quando tornavamo a casa mia mamma mi chiedeva Allora l’hai bevuto anche stavolta il Punt e Mes? E io ero felice di poter rispondere sempre sì.
L’anno dopo, avevo cinque anni, mio padre morì in atroce incidente sul lavoro. La nostra vita cambiò, cambiarono le abitudini, e in quel piccolo bar non ci tornai mai più. Solo anni dopo mia madre mi disse che il mio Punt e Mes era sciroppo di amarene con l’acqua, e che mio padre si era messo d’accordo con il barista per fargli annacquare lo sciroppo in modo che avesse lo stesso colore del suo aperitivo.
Ma a me non è mai sembrata una brutta cosa, questa.

(un grazie a Stimulable per avermi ricordato questo bar e per avermi pubblicata)

domenica 22 maggio 2011

Questa donna

Quando entriamo nella stanza per chiedere se qualcuno ha voglia di sentirci leggere un racconto, così, per saltare un'ora tra le tante ore che devono passare lì dentro, questa donna è sdraiata sul suo letto, completamente vestita - non in pigiama come tutti gli altri - e guarda il soffitto attraverso un bel paio di occhiali dalla montatura alla moda, stretti e bassi, le lenti leggermente oscurate.
E' molto magra, questa donna, ha i capelli lunghi, scuri, che le nascondono il volto, porta un paio di jeans e un maglioncino di lana rosso scollato a V, che non c'entra niente con il caldo umido che si respira in corsia. Le ciabattine sono anche loro rosse però, forse un tocco di eleganza, forse una coincidenza, forse aveva quelle addosso quando l'hanno portata qui.
Questa donna, dopo averci guardato per almeno un minuto senza parlare, non dice nulla ma stacca il cellulare rosso dalla corrente, si alza e si avvia dietro di noi verso la saletta della televisione dove in genere ci mettiamo a leggere, dove quasi nessuno ci ascolta ma dove ci vengono lo stesso, i degenti, perché anche se non gliene importa niente di quello che leggiamo, è comunque un diversivo, un'ora che - forse - va via più veloce in quel rosario mal sgranato di ore vuote.
Il mio collega volontario legge un racconto di Baricco sul concerto dei tre tenori a Wembley. Niente di che, ma Baricco è un buon evocatore di immagini, quasi te li vedi davanti i tre tenori che cantano nello stadio affollato, e forse oggi stanno cantando per questa donna, solo per lei.
Infatti alla fine del racconto questa donna applaude, non un sorriso, non una parola, solo le mani che sbattono l'una contro l'altra come se fosse questa donna l'unico pubblico per cui i tenori hanno profuso le loro energie.
Poi io leggo un racconto di Benni, un racconto che avevo scelto perché mi sembrava buffo e, come dire, indifferente, non suscitatore di emozioni: la storia di un cane che si chiama Boomerang e di cui il padrone cerca di liberarsi a tutti i costi ma niente da fare, il cane ritorna sempre a casa.
Ma mentre leggo questa donna si mette a piangere. Da dietro i suoi occhialetti spuntano lacrime che lei non fa niente per nascondere, poi si porta le mani al viso - porta una fede, questa donna - e piange, silenziosamente, nascosta dalle lunghe dita affusolate.
Io finisco il racconto velocemente, perché so che va a finire bene, ma dentro sono un'eruzione di perché. Perché questa donna è qui ? Non è come gli altri degenti, che in qualche modo appena li vedi capisci che hanno la faccia da Trattamento Sanitario Obbligatorio, perché sono completamente sedati, svuotati, i movimenti rallentati, il corpo ripiegato. Perché piange sentendo la buffa storia di un cane pulcioso? Forse anche lei aveva un cane, forse l'ha perso, magari non è riuscita a superare il dolore, a elaborare il lutto, magari il lutto riguarda qualcuno che ha amato e che non c'è più. Magari è lei che non si ama abbastanza e ha cercato di farlo capire al mondo intero ed ora è salva ma no, non ne è contenta.
E poi penso che questa donna avrei potuto essere io. Anche io non sono stata capace di elaborare un lutto, di affrontare un dolore e una mancanza che mi hanno piegato per tanto tempo, che mi hanno smagrito, fatto piangere, fatto guardare il vuoto per lunghi pomeriggi e lunghe notti.
Ma io adesso sono qui che leggo un racconto di Benni, mentre questa donna è ricoverata in Psichiatria d'Urgenza a farsi leggere delle storie che la fanno piangere.
E io vorrei abbracciarla, questa donna, e dirle che le voglio bene.

lunedì 16 maggio 2011

Avrei voluto dirlo io/2

Se camminiamo di notte per strada e un uomo ci corre incontro, visibile da lontano, perché la strada è in salita e c'è la luna piena, non faremo nulla per trattenerlo, anche se è debole e lacero, anche se qualcuno lo insegue gridando, ma lo faremo continuare nella sua corsa.
E' notte e non è colpa nostra se la strada sale sotto la luna piena, inoltre può darsi che i due abbiano inscenato l'inseguimento per gioco, forse entrambi inseguono un terzo, forse il primo viene inseguito senza colpa, forse il secondo ha intenzioni omicide e noi diventeremo complici dell'assassinio, forse i due non sanno nulla uno dell'altro e ciascuno corre, per suo conto, a letto, forse sono sonnambuli, forse il primo è armato. E, da ultimo, non ci è lecito esser stanchi, non abbiamo bevuto tanto vino?
Che sollievo non vedere più neppure il secondo.

Franz Kafka, Racconti

domenica 15 maggio 2011

Non ne sono capace

La socialità, la socievolezza, la società, il socializzare.
Cose che mi diventano sempre più estranee.
Perché ci vuole esercizio, ci vuole che ti venga in mente qualcosa da dire, ci vuole un sorriso, ci vuole sentirsi a proprio agio. Ci vuole che gli sconosciuti siano una promessa e non una paura. Ci vuole che la parola sia curiosità e non pietra. Ci vuole stima e rispetto di sè e non orrore. Ci vuole stima e rispetto degli altri, e non timore.
Timore di dire una cosa sbagliata, di essere vestita in modo non acconcio, di essere troppo vecchia, di essere troppo grassa, di portare gli occhiali, di essere più antipatica, di essere più stupida.
Timore di essere a disagio, sempre.

Stare bene in mezzo alle persone è una cosa bellissima, e io una volta lo sapevo fare, non che fossi un'esperta, ma mi barcamenavo e a volte ci riuscivo anche, e quasi mai ci si accorgeva che quella tizia silenziosa che però a volte sorrideva, chiacchierava o almeno partecipava con una certa lucidità a una discussione, quella tizia lì, dicevo, era il risultato di esercizio e di volontà e di uno sforzo sovrumano per superare impaccio e timidezza.

Ma la socievolezza è come un muscolo, e se non lo alleni si indolenzisce, e poi si indebolisce, diventa più piccolo e alla fine sai che sì, ce l'hai quel muscolo lì, ma hai imparato a farne a meno e vivi lo stesso, e allora ti dimentichi di averlo. E quando, una volta ogni tanto, ti decidi ad usarlo, dopo vien fuori tutto l'acido lattico che se ne era stato lì buono per un mucchio di tempo, e a te fa male dappertutto, e ti conviene tornare a casa ché almeno lì non ti vede nessuno.

venerdì 13 maggio 2011

Gli occhi neri di Ahmed

- Sono caduto - dice Ahmed, abbassando la faccia sul quaderno per nascondere l'occhio violaceo e tumefatto, il livido giallognolo sulla guancia, i graffi.
Deve ricopiare una stupidissima poesia e impararla a memoria, e poi le parole con sci e con sce e poi le tabelline, hai un sacco di impegni e di lavoro e di responsabilità e di minacce che ti incombono sulla faccia se sei in seconda elementare e sei arrivato a metà anno dopo avere fatto la prima in Egitto. Se avevi appena iniziato a imparare l'arabo e sei stato sbattuto in un paese che non conosci, dove si parla una lingua che non avevi mai sentito e in sei mesi ti tocca fare quello che gli altri bambini hanno avuto tempo di fare da quando sono nati.
E se ti distrai un momento cadi e ti si gonfia l'occhio uguale uguale come se tuo papà ti avesse picchiato con la fibbia della cintura.

Questa cosa della cintura me l'ha detta Aswan, la stronzetta petulante che finisce i compiti prima di tutti ed è la regina dei pettegolezzi. Aswan è una piccola leccaculo e sicuramente avrà una vita facile. Di certo più facile di quella di Ahmed, che la prima cosa che fa quando arriva è guardarti con quegli occhioni neri e ripetere Io non sono capace, non sono capace, e invece poi con fatica, con lentezza, ma in sei mesi ha imparato a leggere quasi bene, sta imparando a scrivere, almeno in stampatello, e riesce pure a ricopiare la poesia.

Non credete mai ai bambini con un occhio gonfio che vi dicono che sono caduti.

Ah, Ahmed non è assolutamente un nome di fantasia, tanto al doposcuola ci sono come minimo quindici Ahmed con gli occhi neri e dubito che qualcuno riuscirà a riconoscerlo. A parte i lividi, ovviamente.

mercoledì 11 maggio 2011

di favole e filastrocche

Da anni non credo più in dio.
Ma qualche volta in chiesa ci vado, perché alla mia età ormai succede che debba andare a qualche funerale. I nostri genitori sono vecchi, iniziamo a invecchiare anche noi, e insomma, la vita, eccetera.
Così, quando ci devo andare ci vado. Mi alzo e mi siedo a comando, incrocio le braccia, scambio il segno della pace perché è un gesto che può fare anche un'atea, e me ne sto a bocca chiusa per un'ora.
Ma dentro. Oh, dentro è tutto un declamare.
So ancora a memoria tutta la liturgia, ricordo di quando ero bambina e a messa ci andavo tutte le domeniche, con mia nonna o, più raramente, con mia madre. E non posso fare a meno di recitarmela, dentro, ma nell'antica versione anni '70, quando c'era "il nostro papa Paolo, il nostro vescovo Michele e tutto l'ordine sacerdotale". E' una filastrocca che per me non ha più senso, l'ha perso molto tempo fa, ma mi è rimasta appiccicata come il vinavil sulle mani e ha fatto quella pellicina sottile che diventa tutt'uno con il palmo e che fa piacere togliere, per poi ricominciare a spalmarla.
Perché io ho una memoria sarcastica. Ricordo la canzoncina della pubblicità del doppio brodo star, ricordo quarantaquattrogatti e ricordo la messa.
E non mi dice niente, è vuota di ogni significato, sterile, noiosa.
Ma non c'è niente da fare, anche se cerco di distrarmi poi ritorno sempre lì, alla chiesa diffusa su tutta la terra, al padrenostrocheseineicieli, al concristopercristo.
Come un'inquietante ninnananna, come un babbo natale che hai ormai smesso di aspettare, come una vecchia filastrocca.
Che però, lì in chiesa, ti viene da canticchiare.

martedì 10 maggio 2011

perché ti voglio bene

No, non sono d'accordo che tu vada al funerale dell'uomo che amavi e che ti ha lasciato mesi fa, perché a quel funerale ci sarà anche suo figlio e la moglie, da cui non si è separato, e amici e colleghi che non conosci e con i quali non puoi condividere nemmeno un abbraccio o una parola o un ricordo, perché nessuno ti conosceva.
Ma ti accompagno, perché ti voglio bene.

No, non mi va di guidare la tua macchina fin là perché tu stai troppo male per guidare, perché son due anni che non guido e comunque non ho mai guidato una macchina più grande di una 500, e la tua mi fa un po' paura e fuori Torino mi perdo sempre.
Ma accendo il motore e parto, perché ti voglio bene.

E no, Frank Sinatra non fa proprio parte dei miei cantanti preferiti, e di My Way preferisco indubbiamente la versione del vecchio Sid Vicious, e non ho voglia di cantarla in macchina per te che sei stonata e non hai il senso del ritmo.
Ma te la canto tutta, a squarciagola, I did it myyyyyyyyy waaaaaaayyyyyy.
Perché ti voglio bene.

E no, non mi piace per niente che tu dopo la funzione ti scoli un thermos di Negroni in macchina, con un caldo ormai estivo, piangendo tutte le lacrime che un essere umano può piangere senza scomparire in una pozza, perché era il cocktail che bevevate sempre insieme, perché so che non mangi da due giorni e che non ti farà bene.
Ma ti lascio bere, perché ti voglio bene.

Conosco bene il dolore della morte, e so che non lascia scampo, né parole. E allora fai quello che, vuoi mia vecchia amica, chiedimi anche quello che non voglio fare, io lo farò per te anche se non mi piace, per farti posare un po' di quel dolore sulle mie spalle robuste.
Perché ti voglio bene.

sabato 30 aprile 2011

Pilipino rock

Sull'autobus che mi sta portando a Porta Palazzo, sedute vicino a me ci sono due signore piccole piccole, con la pelle scuretta, che parlano una lingua strana che all'inizio non riconosco ma poi penso che potrebbe essere Tagalog, sicuramente è una lingua asiatica, e poi loro son piccine e scurette, gli occhi non a mandorla, insomma sì, decido che sono filippine. E mi metto ad ascoltarle anche se non capisco niente, ma ogni tanto, come quasi tutta la gente che viene in Italia a lavorare, ficcano nel discorso qualche parola italiana e io cerco di capire di cosa stanno parlando, perché io sull'autobus non mi faccio mai i fatti miei.
Infatti dopo un po' viene fuori "cinquicenti euro", detto con uno sbuffo e una certa insoddisfazione, e io mi immagino (sull'autobus la mia immaginazione viaggia velocissima) che siano due colf e che a una abbiano proposto uno stipendio di cinquecento euro e lei non sia molto contenta.
E poi l'altra dice : ma noi qui mangia bene, vittelo, arosto, mmmmh - e lo dice con un'aria sognante, schioccando la lingua, con gli occhietti vivaci, e io penso a questa gente che viene qua a faticare in case che loro manco si sognano, a cinquecento euro al mese, ma finalmente possono mangiare vittelo, e mi intenerisco e io a queste due signore bassette qua voglio un po' bene.

giovedì 28 aprile 2011

Repartino

Fabio mi afferra un braccio, interrompendo la mia lettura del racconto, per dirmi che ha bisogno di un prete perché deve dire tutta la verità. Venti minuti fa si era presentato come James Douglas Morrison, ma adesso non se lo ricorda nemmeno più. Son tanti, venti minuti, sono una vita, qui dentro.

Lisa è sdraiata per terra nel corridoio, e dorme. Intorno a lei, seduti per terra, due uomini e due donne; una ripete cantilenando Sveglia, Lisa svegliati, sono cinquanta ore che dormi. Beata te. Svegliati, svegliati.
Cinquanta ore. Non dieci, non un giorno e una notte. No. Cinquanta.

Il racconto che stavo leggendo prima, quando Fabio-Jim Morrison mi ha interotto, è un racconto di Stephen King. L'autore lo ha scelto Antonio, ché prima avevamo provato con Sepùlveda ma lui aveva detto che era palloso, e che o leggevamo Stephen King o lui se ne sarebbe andato.
Andato dove, mi chiedo.
Antonio dice che la prossima volta dobbiamo portare degli autori più fighi, e allora gli chiedo di dirmene qualcuno che gli piace, e lui dice che vorrebbe che gli leggessi John Mayorn Stanton, ma subito dopo lo chiama Josh Antrhop Milling, e se glielo facessi ripetere ancora sarebbe un nome ancora diverso. Oppure gli piacerebbe quel libro di cui non ricorda l'autore ma che si chiama Il giorno dell'intimo, è di un autore italiano, uno bravo come Stephen King.
Poi si mette a cantare in inglese, una canzone che fa you/ don't/ to be / why/ and.
Ne ha di immaginazione, Antonio.

L'infermiere specializzato è uscito dalla saletta comune ma ne avverto la presenza subito dietro la porta. E' un ragazzone robusto, perché con questi, anche se son sedati, non si sa mai.

A parte Fabio, che è chiaramente un tossico che non è mai più tornato dall'ultimo viaggio, non so cos'abbiano gli altri. Alcuni sono giovani, altri non si capisce, potrebbero avere trentanni ma anche sessanta. Hanno denti rovinati, tatuaggi, maglie macchiate, cappelli da baseball, capelli metà neri e metà biondo platino. Hanno parole bofonchiate, sguardi vuoti, calzini bucati. Fumano tutti. Tranquillamente, in corsia.
Sono i degenti del pronto soccorso di psichiatria. Molti di loro verranno dimessi tra qualche giorno, per poi ritornare alla prossima crisi. Altri invece non se ne andranno. Uno mi dice che è arrivato tardi alla lettura perché era a casa di un suo amico che non sta tanto bene, ma l'infermiere mi dice che è qui da più di un mese.

E io, con i miei libri di racconti e il mio badge da volontaria, sento intorno a me il respiro del dolore.

lunedì 25 aprile 2011

il 25 aprile della mia vicina

Si chiama Ocleria, la mia vicina, ma quasi nessuno la chiama così. Nessuno capisce bene il nome, e allora diventa sempre Clelia. Col suo vero nome la chiamo io e la chiamava Vincenzino, suo marito, che è morto a novembre per un attacco di cuore e l'ha lasciata sola e malaticcia.

Ci sarebbero tante cose da dire su Ocleria, ma adesso non le voglio dire. Adesso mi piacerebbe che chi passa di qua guardasse questo video, perché soprattutto oggi è importante, e perché secondo me aiuta a rendere il passato un po' più vicino, e a tenersi stretti i ricordi.
il 25 aprile di Ocleria

venerdì 22 aprile 2011

hand in glove


Sull'onda malinconica del post precedente, una madeleine ancora dedicata a te.
La mano guantata di blu è la mia, il guanto color cuoio, vecchio e un po' rovinato, è una delle poche cose che ci hanno restituito, insieme alla fede, a un mazzo di chiavi e a un vecchio portafogli.
Vedi come la mia mano sembra piccola in confronto alla tua?
Com'era stringermi la mano allora, quando ero tanto più piccola di adesso? Avevi paura di stringermela troppo? Spariva dentro le tue, così grandi?
Io non me le ricordo, le tue mani.
Ma ho sempre avuto un debole per le mani degli uomini: mi piacciono lunghe, con le dita magre, glabre e chiare, con le vene un po' sporgenti.

Le tue le immagino esattamente così.

mercoledì 20 aprile 2011

Aprile è il più crudele dei mesi

E' successo quarantacinque

anni fa.
Eppure tutti gli anni, questa data me la ricordo ancora molto bene.
Ero piccola. Tanto piccola.
Così piccola che ho pochi ricordi di quel tempo.
Ricordo un uomo altissimo e magro appoggiato al muro della cucina, e io che gli corro incontro appena sveglia e gli abbraccio le gambe.
Ricordo cosa si vedeva dall'alto quando mi prendeva in braccio e mi faceva saltare, e il pavimento mi pareva lontanissimo.
Ricordo un Pinocchio di legno snodabile, regalo per una bimba ammalata di scarlattina. Era bellisimo e profumava di legno.
Ricordo il gioco di Braccio di Ferro : prima di mangiare la verdura vinceva lui, dopo che a fatica avevo ingollato una forchettata di spinaci vincevo sempre io. E ci credevo.
Ricordo che gli stringevo le labbra e lo obbligavo a parlare così, e lui faceva un sacco di smorfie che mi facevano ridere.
E poi ricordo di essermi svegliata, un 28 di aprile, perche mia madre gridava in cucina.
E' morto, è morto, non è possibile.
Ricordo le mie ginocchia magre da cinquenne giù dal letto, mentre mi infilavo le ciabattine rosse che mi aveva regalato lui.
Un regalo utile, mi aveva detto. E io non sapevo che cosa volesse dire utile. Me l'aveva spiegato lui.
Le ciabattine rosse sono l'ultimo ricordo di quel giorno, insieme alle grida di mia madre. Non ricordo altro.
So solo che da quelle ciabattine rosse in poi, la mia vita è cambiata.
Un Edipo tranciato a metà, direbbe la mia psicanalista.
Ed è un dolore che mi porterò sempre addosso.
Aveva trent'anni, quel 28 di aprile.
Sono molto più vecchia di lui.