Non so se si scriva così. E’ un termine hindi che significa
“ok, tutto bene, tutto a posto, d’accordo”, ed è la parola con cui sempre si
chiude una telefonata o si
conclude un accordo. E’ in genere accompagnato da un veloce gesto della mano,
una repentina rotazione del polso
destro verso l’esterno, le dita leggermente aperte, un gesto che è
contagioso : mi sono accorta che adesso tendo a farlo anche io e mi piace molto
di più delle americanissime “virgolette”
fatte con le dita.
E’ umano e istintivo
tendere all’emulazione: di gesti, di modi di dire che non sono nostri ma
che acquisiamo lentamente attraverso una sorta di scansione mentale, che
ingenerano abitudine e si radicano inevitabilmente nell’immaginario. La convivenza, anche temporanea, con
persone provenienti da tutto il mondo ti espone a un biliardino mentale, e tu
viaggi e rimbalzi e urti e precipiti come la pallina rossa mentre intorno a te
tutto tintinna, squilla e ti rimanda altrove. Così adotti parole e gesti in altre
lingue, mischi l’italiano con
l’inglese e con l’Hindi – perlomeno quelle tre parole che hai imparato - e trovi analogie (in Hindi nama vuol dire nome, nava in Sanscrito vuol dire nove, agni
significa fuoco, non è
meraviglioso?) e resti di una lingua remota che pure dovevamo avere in comune,
quando alcuni di noi lanciavano il cavallo al galoppo nelle pianure e
pretendevano che tutto il territorio da lui attraversato diventasse loro regno.
Sono qui con una decina di altre volontarie e l’Inglese è
ovviamente la lingua adottata da tutte; ci sono poi altre parole che ti
conviene imparare in fretta – Nehi, No, la parola più usata dagli occidentali –
Jell’ ja, scritto più o meno come si pronuncia, Vai Via, Stammi Lontano, anche questa inflazionata – Shukria,
grazie, Thoda Thoda, poco
poco, Sundari, bellissimo.
Molti qui parlano inglese, ma nei villaggi, negli slums o
nelle tende per strada si comunica con gesti, con sorrisi, o con azioni
impregnate di significato: se ti piazzano in braccio un bambino, si fidano di
te. Se si portano la mano con le
dita strette alla bocca, vogliono mangiare. Non è poi così difficile.
Poi ci sono i gesti ipnotici e ripetitivi di chi è dedito
alla liturgia e al rituale, sacro o profano che sia. La mano destra, pollice e
indice uniti a cerchio che stringono un bastoncino d’incenso, che rotea
elegante il polso seguendo il ritmo ossessivo del tamburo nella cerimonia del Ganga Aarti a Varanasi.
La testa di un fedele che tocca terra più volte nel tempio Shivaita alla
ricerca di favori e benedizione. Il movimento sensuale e convulso di una frenetica danza in un
film di Bollywood. Le dita lunghe
e nervose dei massaggiatori ayurvedici che ti cospargono di olio essenziale e
te lo fanno colare tra i capelli.
L’india è il paese più altamente codificato in cui io sia
mai stata.
Ma effettivamente non sono mai stata in Giappone.